
Per quelli del 1963, Gigi Riva ha un significato speciale ed eterno. Perché quando il Cagliari vinceva lo scudetto, stagione 1969/70, quelli del ’63 erano in prima elementare, anno scolastico 1969/70. E la prima elementare era il rito di iniziazione a un certo calcio, quello che per la prima volta si viveva al di fuori dall’ambito familiare, delle sue eredità, dei suoi riti guidati e delle sue comfort zone. La prima elementare era il confronto ruvido con altri bambini di sei anni e con i loro primordi calcistici (“Ciao, che squadra tieni?”). Era il primo album Panini, i primi calci al pallone fuori dal tuo cortile, facciamo le squadre, giochiamo, Riva, Rivera, Mazzola, gol.
Per quelli del 1963, Riva è stato il primo eroe. Parlo proprio di un fatto fisico, al di là delle bandiere. Riva aveva una faccia da eroe, un corpo da eroe, un sinistro da eroe, anzi, da semidio. Quelli del ’63 avrebbero capito molto più tardi, con la maturità umana e sportiva, la grandezza del giocatore (che ha fatto vincere uno scudetto al Cagliari) e dell’uomo (che sceglie Cagliari – e la periferia del mondo – per la vita, rifiutando i soldi e la gloria della Juve). All’epoca, quando quelli del ’63 erano in prima elementare, Riva era semplicemente il giocatore più fascinoso del campionato (avessimo solo capito cosa voleva dire fascinoso, ma il concetto è quello). E ce ne voleva per essere il più fascinoso, visto che c’era gente – tipo me, per dire – che aveva a disposizione Bonimba, Facchetti, Mazzola, Corso eccetera.
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Per quelli del 1963, poi, l’estate delle prime vacanze vere, quelle tra un anno scolastico e l’altro, fu l’estate del 1970. E l’estate del ’70 fu quella dei mondiale del Messico. Cioè un’altra iniziazione calcistica, alla Nazionale, all’azzurro, al sentirsi italiani per mezzo di una squadra che mette insieme i migliori e se la gioca col resto del globo.
E’ una storia che ho sempre raccontato perchè è vera, e semplice, e molto romantica, e molto tenera per me. Il mio definitivo e impetuoso ingresso nel mondo del calcio – inteso come passione che mi sarei portato appresso per sempre – fu la sera inoltrata, quasi notte, del 17 giugno 1970, quando mia mamma e mio papà urlarono al gol di Burgnich nei supplementari di Italia-Germania e io mi svegliai, seguendo il resto della partita con loro. Dormivo quando la Roccia insaccò il 2-2. Ne consegue che il primo gol che ho visto in diretta tv nella mia vita fu quello di Gigi Riva, il 3-2, da Rivera a Domenghini, da Domenghini a Riva, controllo di sinistro, tiro di sinistro, gol, il semidio che esulta in quel modo tutto suo, la partita – non potevamo ancora saperlo – che non era per niente finita e sarebbe diventata da lì a pochi minuti leggendaria.
E adesso, 53 anni e mezzo dopo quella notte, posso con calma tirare le fila delle statistiche e dei filmati in bianco e nero per dire che sì, Gigi Riva è stato il più grande attaccante che abbiamo avuto, il più coraggioso, il più carismatico, un carisma per sottrazione, lo imparassero gli sboroni di oggi che fanno a gara a chi la spara più grossa. Riva si è ritirato a 32 anni al quarto di quattro infortuni micidiali, eppure le sue cifre resistono inossidabili al tempo, anzi, esaltate dal poco tempo avuto a disposizione per attraversare il calcio italiano e lasciare un solco alto così. La sua ritrosia, figlia anche della depressione, ha finito con l’alimentare il mito: standosene sempre un passo di lato, non ha inquinato il nostro ricordo di lui che con quel sinistro e quelle soluzioni in acrobazia sfondava le reti altrui. Non è mai stato una vecchia gloria: è stato una gloria e basta, una condizione che si possono permettere solo i migliori.
Nessuno ha mai più avuto quella faccia e quel corpo da eroe. Me ne accorgo quando faccio un paragone per un centravanti che mi piace: il nome di Riva viene sempre fuori in automatico, come fosse un cliché ineludibile. Riva chi?, mi dicono. Eh sapeste, rispondo io. Non c’entra (solo) essere boomer: è che quelli come Riva ti restano dentro. Quando il calcio è sentimento, non c’è da vergognarsi a essere sentimentali: anzi, è una piccola fortuna in questo mondo di gigantismo fastidioso e supercoppe a gettone. Il più strano dei lombardi, il più sardo dei non sardi, è stato un personaggio così fuori dal giro che spesso ci dimenticavamo di avere. E che adesso ci mancherà.