
Ho aspettato il minuto 93 di Sassuolo-Atalanta (tu pensa a quali prove ti sottopone la vita), poi sono corso alla Minerva (a Pavia i caroselli si fanno lì, paralizzando festosamente la rotonda attorno alla statua simbolo della città, e avevo proprio voglia di vedere sventolare bandiere nerazzurre e sentire suonare clacson amici, una voglia repressa per 11 anni) e adesso, prima di rilassarmi, ho un Conte da regolare. Cioè un conto in sospeso con Antonio Conte.
Ho dovuto fare una ricerca su Twitter. Sì, ho usato l’hashtag #ConteOut una volta, la notte tra il 25 e il 26 novembre 2020, nel post partita di Inter-Real, in coda a un tweet in cui rinfacciavo al mister di avere demolito la pazza-Inter e di averci consegnato una depressa-Inter. Erano giorni un po’ così, quinti in campionato a cinque punti dal meraviglioso Milan dopo otto giornate appena e scherzati in Champions dai galattici nella partita in cui – una delle rare volte nella stagione, di sicuro la più eclatante – ci siamo sentiti fuori posto, fuori fuoco, fuori tutto. Inadeguati, tutto meno che grandi.
Quella sera, dopo sole quattro partite, finiva di fatto la nostra Champions (poteva andare peggio, potevamo finire quarti: fatto) e la squadra sembrava lontana dal suo allenatore, in quel triste periodo in cui – tra le varie cose – Eriksen veniva fatto entrare a tre minuti dalla fine e io non mi capacitavo di questo inutile sfoggio di bullismo. E allora scrissi #ConteOut perché mi sentivo in un cul de sac, prigioniero di un allenatore talebano nelle scelte tattiche e umane, precipitato in un loop di negatività che non sentivo di meritarmi – cioè, mi dicevo da settimane: se non lo vinciamo quest’anno lo scudetto, con questa squadra, con questa concorrenza, quando mai lo vinciamo più?
Quello fu in effetti il momento peggiore di tutta la stagione. Non riuscimmo a salvare la Champions, ma ci fu un immediato rimbalzo in campionato (sette vittorie di fila) che ci portò ad avvicinare il Milan e a tenerlo d’occhio fino al giro di boa. Poi vabbe’, sappiamo tutti com’è andata. Ma quei giorni di novembre erano tempestosi, c’era quel fermento un po’ malato da ammutinamento sentimentale, ci divertivamo a ridisegnare l’Inter nella ormai quasi certezza che arrivasse Allegri o qualcun altro (così non si può andare avanti, ci dicevamo), e poi a fantasticare sui colpi di gennaio, prendi questo e molla quell’altro, progettando un’Inter decontizzata, leggera, felice. Naturalmente era tutta un’illusione: non solo Conte era economicamente illicenziabile, ma da lì a poco avremmo scoperto che anche l’Inter era irritoccabile. Il famoso annuncio “si va avanti così” sembrava la pietra tombale sulle nostre speranze. Per non parlare di quando a un certo punto scopriamo che a poco a poco la società si ridimensiona, anzi cerca un socio, anzi è in vendita, anzi porta i libri in tribunale, anzi siamo già tutti morti e non ce ne siamo accorti, anzi le cavallette, le cavallette!
Da lì in poi – e parliamo di quattro-cinque mesi della nostra vita – l’Inter è stata soprattutto Antonio Conte e dunque io vorrei chiedergli scusa per quell’hashtag un po’ infelice, per quanto contestualizzato e quindi non gratuito. Ma un po’ infelice e un po’ ingeneroso sì. Io non gli ho mai rimproverato la gobbitudine: è stato il mio allenatore sin dal minuto 1, per quanto faccia sempre un po’ strano vedere vestito con la tua divisa sociale un tipo che sportivamente hai abbastanza odiato (ma se uno sta 16 anni in una società ha tutto il diritto, direi anche il dovere di provare sentimenti e conservare ricordi). Gli rimproveravo la rigidità, l’insistenza su scelte sbagliate, l’atteggiamento distante dalla società (del tipo: io faccio tutto quello che posso e anche di più, ma la situazione la vedete anche voi), le conferenze stampa un po’ grottesche, il percorso, il lavoro, quelle robe lì.
Ma poi ha vinto lo scudetto, e lo ha vinto con una percentuale mourinhana di meriti personali, avendo puntellato la baracca e motivato la truppa proprio quando tutto lasciava presagire il contrario. In questi due anni ha fragorosamente fallito in Champions, ha solo accarezzato il colpaccio nell’Europa League anomala (dove siamo mancati proprio a pochi passi dal traguardo) ma ci ha riportati stabilmente in vetta la campionato, vincendo – anzi, trionfando – al secondo colpo (lui che era noto per vincere al primo, ma tant’è) grazie a un cambio di passo clamoroso in corso d’opera. Trasformando cioè la squadra da quella che ne prende due a partita a quella che ne prende due a bimestre, e per il campionato italiano basta e avanza.
Questo scudetto ha molti volti e abbiamo tempo per elencarli e magnificarli uno a uno. Ma un hashtag mi era rimasto sul gozzo e oggi sono riuscito a mandarlo giù. Ne abbiamo avuti di più simpatici, più empatici, più interisti. Ma questo scudetto ha la tua firma, Antonio, e non solo per quel dito medio sguainato in una serata amara: il punto non era allontanarsi dalla Juve ma sprofondare un po’ di più nel nerazzurro. Lo hai fatto di partita in partita, tuffandoti in quegli abbracci generali che fanno tanto gruppo e piacciono tanto ai tifosi. Hai riempito il silenzio degli stadi. Hai interrotto un decennio di niente. E adesso sì, possiamo dirlo: è il trionfo del #ConteIn e oggi siamo quasi (molto) amici.