Brutti ma buoni

I biscotti hanno normalmente nomi che poeticamente raccontano la loro forma, o che dialetticamente raccontano la loro storia. A parte i brutti ma buoni, che hanno il nome più sincero di tutti. Che ne so, potevano chiamarli robertini, o tortini, o zanzarini, o nutriini. E invece è stata fatta questa scelta brutale. I brutti ma buoni sono, in effetti, brutti ma buoni. E adesso non potresti chiamarli più in un altro modo.

Questo sofisticato ragionamento – che Iginio Massari me spiccia casa – mi è venuto oggi guardando l’Inter (o meglio, nei circa 60 minuti in cui sono rimasto sveglio e vigile, perchè negli altri 30 ho dormito come non mi capitava dal Gp di Ungheria del 2014). Alla nona delle dieci partite da giocare in un mese (da Inter-Torino del 22/11 a Verona-Inter del 23/12, cioè mercoledì) abbiamo messo insieme la sesta vittoria consecutiva in campionato in un sostanziale saliscendi di prestazioni mediamente bruttine, con alcuni momenti di bruttezza tipo oggi (almeno così mi raccontano, nel primo tempo dormivo come un bambino) o tipo i venti minuti finali col Napoli o come il primo tempo col Toro o come (segue elenco). Inframmezzate alle partite di serie A in questo mesetto ne abbiamo giocate anche tre in Champions, con il deprimente bilancio che conosciamo bene. Brutti col Real, buoni a Borussia, brutti con lo Shakhtar. Quindi siamo brutti, altroché, lo siamo stati in Champions, brutti e cattivi, e siamo però anche buoni, se è vero che siamo secondi in campionato e che in questo mese abbiamo recuperato 4 punti alla prima.

A questo punto potremmo fare un fioretto: ci impegniamo a seguire e a tifare con tutte le nostre forze la nostra squadra pur così brutta ma così buona, se la bruttezza giustifica i mezzi per arrivare a vincere le partite – se non tutte, il maggior numero possibile – e magari un qualcosa che possa rinfoltire la nostra bacheca dopo ormai quasi dieci anni di digiuno totale? Ci concentriamo sulla pratica e lasciamo perdere l’estetica?

Beh, si può fare, sarebbe un sacrificio molto relativo di fronte alla prospettiva di un qualcosa. Però l’Inter, senza farne una questione di mera estetica, dovrebbe tendere un po’ di più alla bellezza. Se si è belli, la fatica pesa meno. Se si è belli, l’aria intorno si alleggerisce. Se si è belli, è più facile arrivare al risultato. Non tipo oggi, quando schieriamo con lo Spezia la formazione-tipo che schiereremmo col Bayern o col Liverpool (che di per sè ti dice che c’è qualcosa di sbagliato già in premessa) e ci appiattiamo a giocare una non-partita nell’attesa che accada qualcosa. Può andare bene con lo Spezia, con le altre non so. Le partite tristi ti imbruttiscono, e noi abbiamo bisogno di leggerezza.

L’Inter, per essere più bella, intanto ha bisogno un ritocchino (vabbe’ dai, lo fanno in tante). Mercoledì ho visto in sequenza Juve-Atalanta e Inter-Napoli e ho avuto l’impressione che la squadra meno attrezzata fosse la nostra. Atalanta e Napoli avevano sei attaccanti tra campo e panca, l’Inter due. Lukaku e Lautaro, oltre al logoro Sanchez e al (boh) Pinamonti, hanno bisogno di qualcuno che li faccia rifiatare, o che consenta di rimescolare le carte o rinfrescare le forze. A gennaio il primo obiettivo deve essere quello. E poi la liberazione (anche dolorosa, anche assurda) dagli equivoci, perchè sono cose che pesano, gli equivoci, e non non abbiamo bisogno di pesi.

L’Inter brutta, a tratti oscena di questo mese, è anche molto buona, perchè il bilancio delle nove partite è 7-1-1 e vaffanculo, firmerei per la stessa cosa nelle prossime nove. Però serve cambiare faccia, serve tirare il fiato, serve darsi una rinfrescata. Serve accettare il fatto che in campo, al di là degli schemi e dei numeri, quando in campo ci vanno i buoni (e non i brutti) le cose vanno meglio. Tipo oggi, che metti Sensi e basta qualche tocco meno ammorbato della media per vincere la partita. Se non è Eriksen – dio santo, ormai l’abbiamo capito – l’uomo che ci può dare altra bellezza, beh, prendiamone un altro. Però la bellezza passa dai buoni, non dai brutti: stiamo parlando di calcio, non di biscotti.

Se una squadra che si è concessa ultimamente tanta bruttezza ne ha vinte sei su sei, vuol dire che questo campionato è molto più a portata di mano di quanto non vogliamo ammettere. Farselo sfuggire sarebbe da criminali. Bisogna pensare un po’ più positivo, da Zhang fino a Conte: scrollarsi di dosso questo nebbione concettuale e correre un po’ più liberi. E belli.

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Noi, i ragazzi dell’82

Passa il tempo, i capelli imbiancano, i ricordi si selezionano, la saggezza dovrebbe aiutarti a fare ordine negli avvenimenti e nei valori, ma il Mondiale dell’82 resta per me un momento chiave di una vita intera, una cosa che non schiodi dalla tua Top 10 perchè non c’è verso, e forse non ce n’è ragione, e comunque non è che te ne devi vergognare. Non è solo pallone, non è solo un giocoso rimando a un momento di felicità collettiva. E’ che per me quei giorni furono davvero speciali, e lo racconto sempre divertito, l’ho raccontato una sacco di volte – tipica cosa di chi invecchia – e lo racconto ancora oggi che sono appena morti Maradona e Paolo Rossi. Che piango come fossero stati miei amici e che nell’82 c’erano. L’82 erano loro.

Nel luglio del 1982 io avevo i Mondiali, e avevo anche la maturità. Non sono due cose molto compatibili, non potevano esserlo per uno che – perfetto modello di giovane italiano medio – viveva il calcio in maniera totale, molto romantica e moltissimo passionale. Che nel 1982 avrei avuto la maturità e i Mondiali mi era ben chiaro fin dal primo giorno di liceo, il calendario gregoriano e un naturale percorso scolastico mi proponevano la prospettiva di una coincidenza che, porca puttana, francamente pensavo di non meritarmi. Eppure andò così, com’era nella cose.

Nella clamorosa estate del 1982 ricordo tutto, tranne che di avere studiato – studiato seriamente, dico – per la maturità. Cioè, francamente: come si poteva con un Mondiale in cui l’Italia non usciva mai, e non sarebbe mai uscita? Ancora oggi, attribuisco alla vecchia formula a 24 squadre il merito della mia ingloriosa promozione: con la formula attuale, con tutte quelle partite in più, forse mi avrebbero bocciato. Le vidi quasi tutte, ce ne furono di meravigliose anche nei gironi – la Germania che perde con l’Algeria, l’Argentina che perde con il Belgio, la Spagna che perde con l’Honduras, un Brasile spettacolare come ai tempi più belli. L’Italia – tranne la finale – giocò tutte le partite di pomeriggio: cioè, onestamente, come ci si poteva concentrare su greco e latino quando alle cinque giocava l’Italia? Come?

L’Italia giocò la finale domenica 11 luglio, ore 20, estadio Santiago Bernabeu. Roberto Torti giocò l’orale della maturità sabato 17 luglio, ore 9, liceo classico Severino Grattoni di Voghera. Alla fine abbiamo vinto tutt’e due. L’Italia molto meglio di me, vabbe’, ma l’importante era – appunto – l’Italia. Quanto a me, mi salvò il tema di italiano, all’orale poi feci un po’ di melina, però abbastanza elegante, in discreto stile, almeno per quel che mi rammento. Dovevo rimediare tipo un 4 nello scritto di greco, o forse era un 3, a me piaceva latino, greco no, non mi è mai piaciuto. Feci un carosello solitario sulla mia 500 bianca lungo la circonvallazione di Voghera, con i finestrini abbassati perchè faceva caldo. Fine dei ricordi della maturità.

Del Mondiale 1982 invece ricordo tutto, ricordo dov’ero, cosa pensavo, cosa facevo. Ricordo che mi chiedevo, come tipo altri 50 milioni di ct da divano, perchè mai Bearzot insistesse a far giocare uno che non giocava da due anni e sembrava un morto in piedi in mezzo a 21 atleti decisamente più in forma di lui. Poi non mi sono chiesto più nulla, perchè Bearzot e Rossi hanno vinto il Mondiale, loro due, contro ogni evidenza, contro ogni ragionevole dubbio.

Sorteggiavano la lettera per gli orali quando i risultati concomitanti ufficializzavano che – dopo tre pallidi pareggi con Polonia, Perù e Camerun – passavamo sì il turno ma per finire nel gironcino a tre con Brasile e Argentina, una specie di tritacarne da cui al 99% saremmo usciti umiliati. Paolo Rossi e Diego Armando Maradona – il morto in piedi e l’astro nascente – si incrociarono sullo stesso campo il 29 giugno 1982 alle 17,15: non finì come da pronostico. L’Argentina prese tre pere anche dal Brasile e il 5 luglio, sempre alle 17,15 e sempre in quel cesso del Sarria di Barcellona, Italia-Brasile divenne l’inattesa partita-spareggio per le semifinali. Divenne una delle partite più belle di tutti i tempi.

Da lì in avanti Paolo Rossi – resta uno dei romanzi più avvicenti del calcio di ogni tempo – prese in mano la sua e le nostre vite. Tre gol al Brasile – il morto in piedi! Tre gol! -, due alla Polonia, uno alla Germania, il primo, in finale. Cosa avesse visto Bearzot dietro quello che tutti vedevano, boh, resta uno straordinario mistero. Del resto, la grandi imprese dello sport hanno sempre un alore di sovrannaturale. Fu per Paolo Rossi una rivincita pazzesca su uno snodo crudele della sua vita, due anni di carriera svaniti per un incontro sbagliato nella hall di un albergo, per una frase sibillina scappata chissà come. Si sarebbe scoperto che non c’entrava nulla, che l’avevano messo in mezzo, che il suo nome era anche funzionale a un certo tintinnare di manette.

Era una persona perbene, mite, simpatica. Una persona normale. Ci ha fatto vincere un Mondiale, mi ha fatto perdere 10 punti alla maturità e per questo gli ho sempre voluto bene. Non è mai stato interista, ma non è mai stato un problema. Gli ho visto segnare due gol a San Siro con il Perugia (ma noi ne segnammo tre: foglia morta del Beck, rigore di Spillo e coast to coast di Pasinato). Ciao Pablito, e salutami Diego: la gloriosa estate del 1982 – ricordate? – ce la siamo goduta insieme. Bei tempi, cazzo.

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Scusi, sa dov’è il percorso?

Da quando siamo tornati in Champions (tre stagioni, tre gironi eliminatori e puff!, a casa), abbiamo fatto 21 punti in 18 partite. Per fare un esempio molto pratico, l’anno scorso alla diciottesima giornata del campionato di serie A 21 punti ce li aveva l’Udinese ed era tredicesima in classifica su venti. E noi questi siamo: una squadra che ha potenzialità, che un po’ se la tira e poi a conti fatti è l’Udinese d’Europa, troppo lontana dai top team per sperare di vivere alla grande.

18 partite (sei griffate Spalletti e dodici Conte) con 5 vittorie, 6 pareggi e sette sconfitte. Siccome due vittorie sono arrivate nelle prime due partite della prima stagione, nelle successive sedici partite abbiamo fatto la miseria di 15 punti. Restando alla gestione Conte, in 12 partite 3 vittorie (solo una in casa), 4 pareggi e 5 sconfitte. 13 punti in 12 partite. L’anno scorso, in serie A, 13 punti in 12 partite li aveva fatti curiosamente fatti il disastroso Milan del giorne d’andata, quattordicesimo in classifica davanti al Bologna, quattro punti sopra la teorica quota retrocessione.

Con lo Shakhtar poteva andare in ben altro modo, la traversa sotto il primo blu vibra ancora adesso e il miracolo è stato a portata di mano un po’ di volte. Ma non è successo. Usciamo avendo perso due volte col Real e avendo fatto due 0-0 con lo Shakhtar, un bilancio da Udinese o Bologna d’Europa, quindi ineccepibile, ci piaccia o no. Usciamo avendo vinto una sola volta, avendo sbagliato mille gol, avendo mostrato diecimila sfumature di limiti di personalità (tipo controllare le partite e non vincerle manco per sbaglio).

L’Europa non è il nostro giardino, e del resto Conte non è certo uno specialista della Champions (eufemismo). Quindi, detto che il fallimento è diffuso su tutti i livelli dell’Inter Fc, chiediamoci pure senza autocensurarci se quello di Conte a questo punto non sia un esplicito e completo fallimento personale. Con la squadra certamente non perfetta ma sicuramente rinforzata, è 5 punti dietro il Milan in campionato e fuori dalla Champions con l’ultimo posto nel girone, quindi fuori dall’Europa. Dopo un paio di mesi a mostrare un sorrisino fuori luogo, è adesso tornato nella sua comfort zone delle interviste irritanti, fino allo show di quest’ultimo dopopartita che il Marchese del Grillo a confronto era mister “Resto umile” 2020.

Il percorso – la parola più amata dal nostro mister – zoppica parecchio: difficile autoconvincersi che la squadra “sta crescendo” quando non fai un gol in 180 minuti agli ucraino-carioca che quattro mesi prima avevi preso a pallate. La partita di Gladbach è stata una parentesi in una lunga teoria di partite decisive toppate e di scontri diretti sfumati nella delusione, senza mai dimostrarsi carne o pesce.

Curiosamente, nel momento della massima frustrazione, Conte adesso ha tra le mani una chance clamorosa: togliendosi il fardello dell’Europa, potrebbe concentrarsi su quella che è la sua vera specialità, vincere il campionato. E avrebbe quasi tutto per farcela: la sua competenza specifica, un discreto materiale umano (per l’Italia basta e avanza) e l’occasione di mandare affanculo tutti i suoi detrattori (ormai mi ci metto anch’io) che per un agonista ambizioso e rancoroso come lui può essere la chiave del tutto. Ma non saprei cosa aspettarmi davvero da una squadra a cui evidentemente manca qualcosa per elevarsi dalla mediocrità internazionale e da un allenatore che – a parte il piacere di controllare il saldo sul conto – vorrebbe tanto essere altrove.

In Europa siamo ancora una provinciale, purtroppo. In Italia possiamo dire la nostra, ma bisogna averne voglia. Mi piacerebbe dire che stanotte inizia la corsa al diciammovesimo scudetto, ma se mi facessero il siero della verità si capirebbe che sto esagerando di brutto.

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I fiori di Gladbach

Alla partita stagionale n. 14, l’Inter ha finalmente fatto cose non banali. Una su tutte: in un contesto importante, sfavorevole e delicato, non ha sbagliato partita e ha centrato l’unico risultato possibile. Che l’abbia fatto prendendo i soliti due gol (otto volte su 14 partite) (e una volta tre) diventa un particolare irrilevante visto che ne abbiamo segnati tre, che potevano essere tranquillamente sei o sette. I soliti sei o sette, verrebbe da dire, per questa squadra che quando gira non fa fatica a creare un’enormità di occasioni. Atteggiamento sempre propositivo, solite amnesie dietro ma tant’è: non possiamo che migliorare.

Adesso è tutto appeso a non so bene cosa, in un girone folle per le sue dinamiche, dove il Real fa sei punti con l’Inter, lo Shakhtar fa sei punti col Real, l’Inter vince a Moenchengladbach ma fa il suo ingresso da ultima nel tritacarne della sesta giornata, dovendosi giocare tutto in casa all’ultima partita, in un sinistro ricorso con le ultime due edizioni in cui l’abbiamo preso il quel posto nella stessa circostanza, anche se in condizioni un po’ diverse.

Conte ha switchato la sua personale e malmostosa stagione verso una modalità semplificata. Siccome è un talebano del 3-5-2, ha preso questa decisione: basta con la creatività, fa il 3-5-2, punto. Si è liberato dell’incubo Eriksen ed è tornato nella sua comfort zone. Si è anche un po’ liberato dal Covid, ha recuperato i suoi fidati, ha più opzioni, gestisce meglio le sue scelte, non lavora più di fantasia – quella fantasia malata e un po’ provocatoria, del tipo “io sono io”.

Nel giro di due partite – due trasferte, perchè fuori andiamo meglio che in casa, sempre che “fuori” e “casa” abbiano un senso in questo periodo – le cose si sono un po’ sistemate rispetto al fosco panorama di una settimana fa: in campionato qualche risultato concomitante ci ha spinto al secondo posto in una sola mossa, in Champions dovevamo vincere e abbiamo vinto, e adesso bisogna vincerne un’altra e stare a guardare, in un’aria prenatalizia che potrebbe profumare di biscotto oppure no. Avessimo fatto 3-3 adesso saremmo qui a tormentarci le carni: chissà se – già eliminati – avremmo avuto la forza e la lucidità di fare comunque i complimenti alla squadra per una partita coraggiosa, costantemente all’attacco, in cui solo una colossale sfiga – unita a una difesa non più impermeabile – ci aveva dato una mazzata mortale e immeritata. Vabbe’, meglio così: il nostro sogno europeo dura ancora una settimana e dai, su, proviamo a godercelo.

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Triste, solitario (non final)

Nel giorno in cui muore Maradona, cioè il calcio, era dura immaginarsi qualcosa che potesse competere in tristezza, ma noi ci siamo impegnati e ce l’abbiamo fatta. Non c’è paragone tra i due lutti, per carità, ma forse (perché non c’è nulla di meno definitivo del calcio giocato e da giocare) stasera è morta anche l’Inter di Conte, quella che doveva essere la non-pazza Inter (perchè volerci snaturare fino a quel punto?) e oggi, per rimanere alle patologie mentali, è una depressa Inter, prigioniera degli schemi e delle paturnie del suo allenatore, soprattutto della sua tristezza attuale, una palese infelicità, in questo legame senza senso tra datore di lavoro e strapagato dipendente che si regge solo sui soldi, una questione di vil denaro e di pelosa convenienza contabile di cui a noi non frega un cazzo – tranne il fatto di esserci dentro fino al collo.

Non c’entra la gobbitudine (qui scrive uno zuzzurellone che sin dall’inizio ha dichiarato che non sarebbe stata un problema, di fronte a un bene e a una missione superiore), c’entra che ormai è tutto piuttosto e drammaticamente chiaro: siamo nel gorgo di un allenatore che non prende più decisioni giuste manco per sbaglio e di una squadra che moralmente ha smesso di seguirlo.

Una squadra che si mette a giocare se va sotto di due gol o se rimane in dieci, perchè prima, secondo i piani prestabiliti, nessuno ha più voglia di metterci testa, gambe e palle di default. E un allenatore che ha smesso di stare antipatico, ha smesso di rompere i coglioni, ha smesso di trasfigurarsi, ha smesso di spremere rape. Un allenatore ha cercato di farsi esonerare due volte, non riuscendoci. E che ha cercato di transare, non riuscendoci. E’ ormai da qualche mese l’allenatore reluctant della non-pazza Inter. E’ un disastro, amici miei.

Conte non è più sopportabile così. E’ uno che si è ridotto a fare entrare Eriksen all’88esimo, come fosse un Pinamonti o un Esposito, perchè gli sta sul cazzo dal primo giorno che gli hanno detto che sarebbe arrivato, tanto da non essersi mai preoccupato di utilizzarlo al meglio. E’ stata una cosa da sfigato, queste ripicchette tra milionari fanno stracagare, queste umiliazioni in Eurovisione non sono accettabili. Certamente è arrivato all’88esimo con le palle girate, Conte, nella serata del tradimento definitivo di Vidal, l’uomo che ha inseguito per due mercati e guarda te cosa gli (ci) combina. Ma tra uomini di sport bisogna essere più seri nei momenti difficili. Hai il quinto cambio, all’88esimo di una partita irrimediabile? Piuttosto metti Padelli al posto di Lukaku, non Eriksen. Ma perché, cosa ti ha fatto?

E per quanto andremo avanti? Suning ha le sue ragioni, i soldi per l’esonero più oneroso della storia non ce li mettiamo noi ma loro. Ma io a uno così – così com’è oggi, che manco si fa più la barba – gli minerei l’autostima, cacciandolo e richiamando Spalletti, già a libro paga, una roba un po’ alla Preziosi, un po’ da squadretta pericolante, ma che liberazione sarebbe per tutti (anche per lui, così attaccato all’orgoglio e alla buonuscita). Invece siamo qui, nè carne nè pesce, in bilico tra duemila dubbi in una stagione in cui sarebbe bastato essere l’Inter dell’anno scorso. Siamo qui a sperare in un miracolo in Champions, se vinciamo le prossime due. Solo che purtroppo in Champions abbiamo perso 7 delle ultime 14 partite, un’altra statistica che ci inchioda e che ci dice che no, non siamo propriamente una grande squadra.

Ci vorrebbe un’altra situazione, un’altra motivazione, un’altra immagine di questa Inter. Ci vorrebbero occhi di tigre invece di questi sguardi smarriti. Era meglio pazzi che impanicati. Invece eccoci qui, ognuno ad aspettare che si muova qualcosa. Ma se Conte non lascia libera la sua sedia è probabile che non accada niente che (sospiro) ci cambi davvero la vita.

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Barba non facit allenatorem

Conte non si è nemmeno fatto la barba. E mica solo lui. Tutta l’Inter per un’ora è sembrata un Conte con la barba di due giorni, reduce da un paio di notti agitate, o semplicemente preda di quello spleen mattutino da giornata uggiosa, quando fai fatica ad alzarti, fai fatica a farti la doccia e, soprattutto, fai fatica a farti la barba. Ti guardi allo specchio, scruti le tue occhiaie, guardi la tua barba di due giorni e dici:

“Fanculo”

e dopo vaghi pensieri di morte cerchi di convincerti che con la barba di due giorni non sei poi così male, in fondo va un po’ di moda, non casca il mondo se non te la fai, ti dà quell’aria un po’ vissuta, un po’ stropicciata, un po’ Conte con la barba, simbolo del suo tormento, un milione al mese per cercare di vincere uno scudetto e una Champions League prendendo due gol a partita e vivere infelice, con la barba lunga e la faccia di chi non si sarebbe alzato per vedersi Inter-Torino nemmeno gratis da bordo campo per poi ricordarsi che l’allenatore è lui, e al limite per guadagnare dieci minuti di serenità prima di uscire non si fa la barba.

La prima ora di Inter-Torino è stata molto brutta. Contro una delle più assurde squadre del campionato, priva oltretutto del suo uomo migliore, ci siamo fatti allegramente prendere a pallate. Reduci da una vittoria in otto partite, più fuori che dentro in Champions, più brutti che belli in campionato, ci ripresentiamo impresentabili dopo la sosta per le nazionali come se sostanzialmente non ci interessasse nulla: il Torino, il campionato, l’amor proprio, la barba. Per svegliarci dobbiamo andare sotto 0-2 con mezz’ora da giocare, e lì – considerando che giochiamo contro quasi nessuno – ne mettiamo quattro e via, tutto è bene quel che finisce bene.

C’è una chiave molto banale e sicuramente verosimile per decrittare questa partita: con nove partite da giocare nei 30 giorni che verranno, e soprattutto a tre giorni dalla partita con il Real che al 90 per cento deciderà il nostro destino in Europa, bisogna che ci abituiamo al turn over e agli sbalzi di rendimento. Certo, sapere che un ciclo spaventoso di 10 partite in 33 giorni inizia con 62 minuti allucinanti con il Torino, beh, qualche dubbio sul nostro futuro lo legittima. E nessuno di questi dubbi è inedito (eufemismo). I giocatori si rendono conto della situazione? E l’allenatore è del tutto dentro il progetto – il suo, il nostro – o lascia parlare la sua faccia di oggi, con la barba di uno che non voglia di farsi la barba (figurarsi sbattersi per una causa che non lo prende più di tanto)?

Ormai giubilato Eriksen senza praticamenter averci mai creduto – comunque sia, uno spreco senza precedenti -, restiamo un cantiere aperto quando pensavamo tutti che la conferma di un top-allenatore inviso a mazza tifoseria fosse di per sè la base sicura per un fulgido avvenire. Domani mattina va a finire che la barba non me la farò nemmeno io. E avanti di questo passo avremo tutti delle facce orribili, tipo quegli allenatori che prendono due gol fissi a partita e per vincere devono farne sempre tre o quattro, una vitaccia di merda che non faremmo manco per un milione al mese.



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Una su otto

Delle ultime otto partite (5 in campionato e 3 in Champions), giocate in 35 giorni, l’Inter ne ha vinta una (2-0 fuori casa con il Genoa), pareggiate cinque e perse due. In estrema sintesi: non meritavamo di perdere le due che abbiamo perso, ci è andato stretto il pari nelle cinque che abbiamo pareggiato (in alcuni casi, meritavamo proprio di vincere), se non per rarissimi spezzoni di partita ci siamo trovati sotto nel gioco, e però è andata così. Rispetto alle nostre ultime medie abbiamo preso un sacco di gol e quasi tutti su azione, e ne abbiamo segnato una miseria rispetto al cumulo delle occasioni create. Che si tratti di segnare il gol sicurezza o di non prendere il gol inculata, abbiamo perso totalmente la confidenza con il concetto di “chiudere la partita”.

Tutto, in questa strana Inter di questo periodo di merda, è leggibile in vari modi. Una vittoria nelle ultime otto partite è un bilancio in rossissimo, ma nelle otto partite in questione hai giocato con Lazio (fuori), Milan, Atalanta (fuori) e tre volte in Champions (due fuori) (sempre se ha senso con gli stadi vuoti parlare di casa e fuori): insomma, non proprio un ciclo tranquillo. Che la partita la faccia quasi costantemente tu, è certamente un bene. Che non la chiudi mai, ma proprio mai, è invece una cosa che ormai sfiora l’inconcepibile. Quando Conte dice che “finchè si gioca in questa maniera” non c’è da preoccuparsi, a 31 giornate dalla fine del campionato può anche avere ragione. Però, a giocare in questa maniera (quale, poi? dominare e non vincere mai?), ci siamo probabilmente fottuti la Champions, ancora recuperabile ma senza possibilità di altri passi falsi. E noi, nelle ultime otto partite, di passi falsi ne abbiamo fatti sette.

Certo, la sfortuna, certo, gli arbitri… E poi gli stadi vuoti, il Covid, le convocazioni nelle nazionali… le altre grandi hanno gli stessi problemi (magari non gli arbitri e la sfortuna, gli altri sì), i tamponi non li fanno solo a noi. E noi “grandi” non lo siamo per niente, perchè le sei partite importanti di questo ciclo di otto non le abbiamo vinte, nemmeno una, producendo sempre tanto e raccogliendo sempre poco, o zero. Non si capisce bene quale pressione stia patendo la squadra: voglio dire, dalla tribuna rossa o arancione non brontola nessuno. Ma dopo le (brevissime) vacanze siamo un disastro: dal computo delle partite ne mancano solo due, le prime due, entrambe vinte, miracolosamente quella con la Fiorentina, ordinariamente quella col Benevento (cinque gol subiti in tutto, tutti su azione). E non è un volere ma non potere, è il contrario: noi possiamo tanto, forse tutto, ma non vogliamo.

Il nostro simpatico Conte ha appena dato dell’ubriaco a chi lo critica e lo vede moscio. E vabbe’, la grinta gli viene fuori a spot, non incide ma fa il permaloso (sospiro). Poi ha detto una cosa interessante: io le partite le preparo, poi però non vado in campo e le situazioni le devono risolvere i giocatori. Beh, non ci deve più essere tutto quel feeling con lo spogliatoio. Eriksen non lo ha fatto nemmeno scaldare. E noi qui, a non capire se questa squadra può vincere tutto o se è già iniziata la dismissione. Sogniamo lo scudetto e, guardando il calendario, ci accorgiamo che è novembre e, come tante volte in tempi recenti, quando è tornata l’ora solare e l’autunno volge verso l’inverno ci trema già la sedia sotto il culo.

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Vita in campagna (sequel)

“Vita in campagna” (traduzione un po’ così dell’originale “Them thar hills”) è un cortometraggio del 1934. Una comica, come si diceva ai tempi. Una comica – forse, per me, LA comica – di Stanlio e Ollio. Debbo qui svelare un particolare molto intimo. Quando guardo “Vita in campagna”, una comica di 86 anni fa, rido come un bambino che la vede per la prima volta (un bambino oggi riderebbe per una comica? Boh). Solo che l’avrò vista, non so, minimo 75 volte. Cioè, facciamo due conti: l’avrò vista 20 volte da bambino. Poi, con l’avvento dell’internet e l’invenzione di YouTube, l’avrò vista un altro tot di volte, decine. Quando sono proprio giù di morale apro YouTube e guardo principalmente tre cose: il secondo gol di Milito a Madrid ripreso dagli spalti col telefonino da 20 angolazioni diverse, gli ultimi 10 minuti di Inter-Samp del 2005 oppure “Vita in campagna”. Oppure tutte e tre. Dopo, mi sento molto meglio.

“Vita in campagna” è quella comica in cui Stanlio e Ollio fanno una gita in roulotte perchè Ollio ha la gotta e deve riposarsi fuori città. Si accampano vicino a un pozzo da cui attingono l’acqua. In questo pozzo alcuni contrabbandieri avevano appena versato ettolitri di acquavite prodotta illegalmente. Stanlio e Ollio bevono col mestolo dal secchio e trovano l’acqua “ferruginosa”. Dopodichè, con loro che progressivamente si ubriacano, ne succede di ogni (e ogni volta rido anche so tutto a memoria). L’acqua ferruginosa, cazzo, che due geni quei due.

Ecco, riguardo a questo strano inizio di stagione dell’Inter, io ho una ipotesi tutta mia. Una notte di settembre, un gruppo di contrabbandieri braccato dalla finanza ha versato alcuni ettolitri di benzodiazepine prodotte illegamente in un pozzo vicino al Centro Suning di Appiano Gentile. Per qualche settimana, dai rubinetti di Appiano è scesa acqua “ferruginosa”, che rasserenava gli animi. Poi dev’essere successo qualcosa. Perchè oggi la squadra e lo staff dirigenziale hanno evidentemente bevuto da due brocche diverse.

La squadra è ancora sotto l’effetto dell’acqua ferruginosa. Svagata in attacco, dove non segni manco un’azione ogni 20, perchè con questa media oggi avremmo vinto 3-2 minimo. Svagata in difesa, dove contro un Parma senza pretese prendi due gol su due tiri, ti fai prendere alla sprovvista (mica dal Liverpool, dal Parma) e trac!, va tutto a culo. Con serenità tieni palla, fai medie mostruose di possesso, ti porti a casa il pallone e stop: nel mezzo, perchè sbattersi a tirare? Perchè incaponirsi a provare a metterla dentro? Perchè mettere gambe e polpacci e teste a repentaglio in quel casino dell’area di rigore? Poteri dell’acqua ferruginosa. Decisioni giuste? Quasi mai. L’acqua ferruginosa ti toglie la cazzimma.

Lo staff tecnico e dirigenziale, invece, da qualche giorno deve essere passato all’acqua minerale in bottiglia. Oggi Marotta (negli slot in cui solitamente i dirigenti si esibiscono in quattro banalità e via) si è concesso una doppia intervista da paura: prima della partita, ha detto che si è rotto i coglioni di dare i giocatori alle nazionali, si gioca troppo, ci si infortuna, basta, parliamone; dopo la partita, ha detto che va bene tutto, ma se non ci danno rigori come quello su Perisic allora se ne andassero affanculo gli arbitri, il Var, la Lega, la Figc, l’Uefa, la Fifa e i nazisti dell’Illinois.

Bum!

Dopodichè arriva Conte. Sapete, quel tizio cordiale che ci allena, quello che ultimamente rideva sempre, diceva che andava tutto bene, i ragazzi crescono, le mamme imbiancano, eccetera. Stavolta è incazzato. Risponde male. Dice che è stufo di vedere la squadra dominare le partite epperò i gol li segnano gli altri, noi pochi, quasi niente. Che l’attacco è molle, che serve cattiveria, che così non va bene. “Scusa, ma a proposito di cattiveria, come mai per un’ora hai tenuto in panca Vidal, Brozo e il Ninja?”. Uh, è già incazzato, lasciamo stare.

E quindi, al netto di una partita per qualche tratto inguardabile, in generale molto ferruginosa, dove si vedere una squadra – la nostra – che palleggia senza fretta e senza un’idea brillante che sia una e l’altra assiste che annoiata e poi respinge e poi si ricomincia, vuoi vedere che almeno concettualmente è iniziata oggi la vera stagione dell’Inter? Quella in cui si ricomincia a essere ruvidi e ad accantonare il buonismo del volemose bene anche se non ci piacciamo più? Se la società si scuote dal torpore e se l’allenatore – dentro o fuori dal progetto, chissà, ma con il pedigree del competitivo – decide di sporcarsi un po’ le mani in attesa di trovare migliore sistemazione, resterebbe da risolvere il problema dell’acqua ferruginosa. Se vedete un furgoncino con le casse di minerale, ditegli di andare in viale dello Sport, 22070 Appiano Gentile (CO). Quanto agli arbitri, magari prima o poi la ruota gira (risolini in sottofondo, qualche risata, alcune bestemmie).

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Questi siamo noi

Tutto in una notte. Nel senso che non ci poteva essere una partita più rappresentativa di cosa è l’Inter oggi, alla fine di ottobre di questa merda di periodo. Più che una partita di Champions sembrava un trailer, o uno di quei filmati corporate, quei video che proiettano all’inizio e poi ti danno il dvd con la cartella stampa quando esci. “Oppure lo puoi scaricare a questo link”. “Grazie!”.

Andiamo per ordine. Intanto, il primo tempo è stato molto buono. Due traverse, tante occasioni, tanto possesso, tanto gioco, tanto tutto. Non a livelli stratosferici, ma quanto sarebbe bastato per andarsi a bere un tè sul 2-0 e nessuno avrebbe avuto niente da dire, anzi. E saremmo primi nel girone, per dire.

Ok, proseguiamo con le cose belle. Non abbiamo preso gol. Vabbe’, per gran parte della partita quelli non li abbiamo visti avvicinarsi nemmeno alla tre quarti. Diciamo che fa testo, ok, è pur sempre una trasferta di Champions, ma fino a un certo punto. Ok, altra cosa bella… Ecco… allora…

Niente.

Passiamo alle cose brutte. Intanto, non abbiamo segnato. Ora, senza tirare un ballo Romelu, che Iddio ce lo conservi, la capacità offensiva del resto della truppa è un pianto: nel secondo tempo siamo stati irritanti, scelte sempre sbagliate, decine di palloni buttati nel cesso. E’ una squadra tanto potenzialmente forte quanto attualmente frenata dall’incertezza, qualche volta divorata dall’ansia. Come sia uscito un secondo tempo così orribile – al netto di un rigore negato, che sarebbe stato comunque un episodio – dopo un primo tempo tanto promettente, boh, è un mistero. Oppure, paradossalmente, è molto chiaro: non siamo tranquilli, non abbiamo confidence, ma neanche un po’. I giocatori si trasmettono l’un l’altro una dose di panico più ci si avvicina all’area avversaria. Sembra di vedere i ragazzini che giocano a “suora tua senza ritorno”.

A questo punto, penso a Conte. Ma non era il re dei motivatori? Lo spremitore di sangue dalle rape? Il creatore di progetti vincenti anche contro le evidenze? Le sue conferenze stampa stanno diventando sempre più inverosimili. L’uomo che digrignava i denti e replicava scocciato a qualunque critica non necessariamente fuori luogo adesso è sempre sereno, sempre contento, sempre soddisfatto, la squadra lavora, la squadra cresce, non posso dire niente ai ragazzi, ho visto tante cose buone. Che ti verrebbe voglia di alzarti dal fondo della sala e dire “Scusi, mi fa l’elenco dettagliato delle cose buone del secondo tempo?”, ma lo sai che sei sul divano e tieni la domanda per te

Siamo stati sfortunati, il primo tempo poteva finire diversamente e adesso saremmo forse qui a dire che siamo andati là per vincere e lo abbiamo fatto, come succede alle grandi squadre. Ma non è successo, e peccato per il concetto di “grande squadra” che ci sfugge sempre appena ci avviciniamo, zac!, come il codino delle giostre. Siamo stati sfortunati e prima o poi ‘sta cazzo di ruota magari girerà, la legge dei grandi numeri è dalla nostra parte. Però non possiamo limitarci ad aspettare il momento in cui tireremo due centimetri più sotto, o qualche stinco ci rimetterà in gioco, o troveremo arbitri migliori.

Vorrei discutere davanti a una birra con Conte delle sue mosse, ma purtroppo i bar chiudono alle 18. Quando c’è da cambiare la partita, quando c’è da dare una mossa alla truppa, una rimescolata alle carte, Conte sceglie spesso l’opzione più farlocca. Come si possa pensare di essere più pericolosi togliendo Lautaro e mettendo Perisic, boh, è troppo difficile per me. E se vuoi minimamente provare a vincere una partita, hai Eriksen in panchina e lo metti all’80’, beh, stai solo restringendo il campo di una possibile chance, oltre a perdere un giocatore già un po’ perso di suo. Ma chi non sarebbe un po’ confuso e demotivato in questa Inter condotta da un allenatore dai princìpi incorruttibili e dal sorriso sospetto? Sa qualcosa che noi non sappiamo?

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Pagellone alfabetico che lascia il tempo che trova

Questo inizio di campionato è un tale casino (Milan e Sassuolo ai primi due posti, Napoli al quarto posto dopo una partita persa a tavolino e un punto di penalizzazione, tre sole squadre imbattute dopo 4 giornate) che i nostri casini sono ben contestualizzati nella situazione di incasinamento generale. Che poi, in fondo, non è bello così? O preferivate la Juve a punteggio pieno? Noi abbiamo perso un derby (cosa che fa incazzare in sè) con sei assenti Covid e un paio di malconci, dopo la settimana di diaspora per le nazionali, pagando carissime le nostre cazzate e procurandosi più di un’occasione per rimediarle, con un Var da azzeccagarbugli ad annullarci un rigore a favore. Quindi, keep calm: siamo alla quarta giornata, mica alla trentaquattresima. Bene, parliamone. Quando spazio ho?

Anzi, facciamo una bella cosa. Tipo quei pagelloni con le lettere dell’alfabeto che si fanno a fine stagione o durante la pausa natalizia. Facciamo adesso, massì, perché aspettare?

A come Achraf. Cioè Hakimi, cioè una delle 4/5 cose migliori passate dalle nostre parti nel dopo Triplete. Siamo troppo sbilanciati? E ‘sticazzi, direi che questo bendiddio merita di perderci qualche notte a trovare la quadra. Ha una falcata che è una bellezza e crossa tipo Candreva, ma centoquattordici volte meglio.

B come Barella (e Bastoni). No, insomma, non è che gli acquisti li canniamo sempre, questi due sembrano un pelino meglio di Belfodil o Botta (giusto per rimanere alla lettera B). Con loro stiamo tranquilli per un po’. Barella è un’altra delle 4/5 cose migliori di cui sopra, Bastoni ha davanti una stagione per entrare anche lui nel cerchio magico al posto di qualcun altro (tipo quella roba delle sedie di X Factor, you know). Oppure – sarebbe il sogno di tutti noi – allarghiamo il cerchio magico, perché i buoni sono di più e noi voliamo alto.

C come Conte. La versione Bonomelli del nostro amato (?) condottiero regala un surplus di provvisorietà alla già disorientante situazione. Ci è o ci fa? Ci crede o non ci crede? Fa la formazione perché ne è convinto o per sfidare il mondo anche contro le leggi dell’evidenza? Dopo aver scoperto con sorpresa di avere una panchina lunga, il Covid gliel’ha accorciata di brutto nella prima partita davvero importante della stagione. Quindi lo attendiamo in tempi migliori, e con quel lampo perverso negli occhi che oggi lascia spazio a uno sguardo acquoso tipo genitore alla recita scolastica.

D come De Vrij. E’ uno dei migliori difensori al mondo. Sembra impossibile che prendiamo due gol a partita con lui in mezzo. Zhang gli compri una bolla personale: non si deve ammalare, non si deve infortunare, non si deve arrabbiare, non deve avere pensieri.

E come Eriksen. Fatte le debite proporzioni temporali, rivivo con lui l’incubo icardiano. Sto passando da “Lo adoro, è il migliore, sono pronto a fare scudo con il mio corpo” a “Se non c’è nessuno che lo porta a Malpensa vengo io con la mia Lancia Y, se non c’è il volo lo porto al confine e lo scarico a Chiasso”. Forse, ad appesantire le sensazioni di spossatezza generale, c’è quella faccia da bambino dell’asilo quando la mamma se ne va via, la faccia che si porta appresso quando entra in campo come se quel prato con le tribune attorno fosse un luogo ostile e sconosciuto. Ma santiddio, tira fuori i coglioni! Sei Eriksen! Addirittura il nostro amicone ex gobbo ritaglia il ruolo del trequartista nelle sue sinapsi talebane e poi mette un altro, non fa giocare lui: ci sarà una ragione, temo.

F come Fragile. Tra le sfighe dello scorso anno, a dare il colpo di grazia sul nostro livello estetico, c’è stato l’orribile tunnel in cui si è infilato Sensi con i suoi muscoletti da ballerina di seconda fila. No, perché se oggi guardate i nomi del reparto centrocampisti e ci aggiungete come bonus un Sensi sano, che manco è titolare, no dico, non è un repartone?

G come Gagliardini. Se dovessi scrivere un libro dal titolo “Conte spiegato alle mie figlie”, comincerei dall’importanza intrinseca di uno come Gagliardini. Ah, comincerei da lì anche se dovessi scrivere un libro dal titolo “Non capisco un cazzo di calcio ma vivo bene lo stesso”.

H come Handanovic. Come Clint Eastwood ha due espressioni: con il cappello e senza. A me sta simpatico, non l’ho mai compreso nella lista dei 10 principali problemi dell’Inter, e non c’è nemmeno oggi che – rapportata alle ultime dieci stagioni – abbiamo una rosa extralusso e un numero più ridotto di problemi. Vabbe’, ecco, fa un po’ incazzare quando gli viene quella cosa che non si tuffa quando gli altri tirano: dura quelle tre-quattro settimane, ma poi passa.

I come interisti. Sarà una stagione complicata: stringiamci a coorte.

J come Juve. Merda.

K come Kolarov. Dieci anni fa mi piaceva molto. Il fatto che lo abbiamo preso dieci anni dopo, beh, diciamo che non mi ha molto convinto sin dall’inizio. Tipo: dieci anni fa mi piaceva molto anche la Sharapova, poi sono maturato. Aspetta, vediamo, mi sono detto. Dopo quattro giornate, solo un cieco interismo mi frena dal fare una class action contro l’Fc Inter da Zhang fino all’ultimo venditore di cornetti Algida. Non può che migliorare.

L come Lautaro. È molto forte e molto ambizioso. Se lo lasciamo concentrato – cioè, non so, continuiamo a ripetergli come un mantra in sala mensa che il Barcellona ha le pezze al culo – può darci tantissimo.

M come Milan. Inteso come Skriniar, spero che torni quello di due stagioni fa: ne abbiamo bisogno. Inteso come Milan, spero che torni quello di due stagioni fa: ne abbiamo bisogno.

N come Nainggolan. Potevo metterlo anche nella O, come Oggetto misterioso. Misterioso per me, che non mi capacito di cosa possa portare alla nostra causa (che non mi sembra convincerlo molto, ma mi baso sul linguaggio del corpo) (della faccia, più che altro). Oh, poi magari ci stupirà tutti con qualche effetto speciale (vedi Oh).

O come Oh! Un’incursione del Ninja, una punizione da 30 metri di Kolarov, un sorriso di Eriksen, una difesa a quattro schierata da Conte… perché non sognare?

P come Perisic. Il Politano della Pannonia è una doppia sorpresa: 1) non mi aspettavo di rivederlo, 2) non è migliorato nel frattempo. Fargli fare l’intera fascia è come chiedere a Filippo Tortu di correre anche i cinquemila.

Q come Qulo. Licenza poetica per dire che, per ora, non ne abbiamo avuto e generalmente ne abbiamo poco. È un credito che magari non riscuoteremo mai, ma ce la possiamo raccontare tra di noi e bòn.

R come Romelu. L’Uomo che aspettavamo, che è arrivato e ha risolto problemi, come il signor Wolf. Ne avevamo così tanti che siamo più o meno a metà della strada, ma siamo tutti fiduciosi e Lui, Lukaku, è fortissimo, grossissimo, bellissimo e bravissimo.

S come Settantasette. Qualcosa di perverso mi lega a questo centrocampista che ogni anno cerchiamo di vendere al miglior offerente che evidentemente non offre abbastanza (o non offre un cazzo, il che potrebbe minare l’autostima del nostro Epic, ammesso che questi slavi indolenti abbiano un’autostima, questo non lo so). Il minuetto continua: un giorno gli darei il Pallone d’Oro, il giorno dopo una serie di calci in culo (o qulo) da qui a minimo la Dalmazia.

T come Trentatré. D’Ambrosio è il contrario di Brozo: un uomo serio e senza eccessi, senza picchi, affidabile, che dove lo metti sta, e questo capita da sette stagioni e mezzo e più di 200 partite e io gli voglio bene.

U come uno. I punti di distacco dalla Juve lo scorso campionato. Sì, ok, lo sappiamo tutti, è un dato abbastanza fake, ma che ci deve responsabilizzare, ci deve dare una dimensione, una dritta, un impegno morale. Da lì non si torna indietro. Possibilmente.

V come Vidal. Poche balle, era quello che mancava lì in mezzo. Al netto dei duecento ordini di dubbi che possiamo nutrire. Ma non è che dobbiamo continuamente sfracellarci i coglioni, bisogna stargli addosso e fantasticare un po’. Sennò, santa polenta, che noia.

W come wonder. Inteso come Maravilla, se Sanchez è quello del finale della scorsa stagione, ok, va benissimo.

X come X. Il Mister che prenderemo a gennaio. (disclaimer: chiunque spara la qualunque sul mercato, e io chi sono? Il figlio della serva?)

Y come Young. Esperto suona meglio di vecchio, una discreta sicurezza nel nostro futuro a breve, un profilo alto, comunque abbastanza un lusso, diciamolo. Poi non tutti hanno un giocatore che inizia per Y quando devono fare il pagellone della quarta giornata. Grazie Ashley, sgroppa e portarci in paradiso.

Z come Zlatan. Poteva mettere Zhang, ma metto Zlatan a futura memoria. Il rapporto aspettative/rendimento degli acquisti dello scorso gennaio di Inter e Milan ci vede drammaticamente in svantaggio. I due sberloni che ci ha tirato nel derby spero ci abbiano svegliato. Mancano solo 34 giornate alla fine, non c’è poi così tanto tempo.

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