Male, non malissimo

All’Olimpico si affrontavano due squadre che non perdevano in campionato da 18 e da 16 partite, è stata un gran bella partita ed è finita in maniera un po’ random, cioè dove la pallina della roulette si è fermata dopo essere rotolata un po’ di qua e un po’ di là. Non c’è nulla di cui disperarsi. Il triello Juve-Lazio-Inter non finisce qui, però questa serata si presta a un bel po’ di interpretazioni e considerazioni, non tutte rassicuranti.

Ciclo di ferro. Il ciclo di ferro dell’Inter – 9 partite in 29 giorni – comincia con una vittoria e due sconfitte consecutive. Maluccio, cioè. Di queste tre partite ci restano due tempi scintillanti (il secondo con il Milan, il primo con la Lazio) e quattro più o meno mosci. Rispetto a soli otto giorni fa abbiamo perso due posizioni in campionato e siamo con un piede fuori dalla Coppa Italia. Non benissimo. Per carità, restano 14 partite di campionato e la Lazio – se esiste una legge di compensazione fisica, o il karma – prima o poi pagherà pegno. Ma intanto noi adesso inseguiamo, ne abbiamo due davanti e tra due settimane si va a Torino.

Black out. Conte si è incazzato per quei passaggi a vuoto che ci sono costati la partita, per i due gol regalati, per l’incapacità di gestire un prezioso vantaggio (già amaramente vista, rimanendo a partite-chiave, a Barcellona e Dortmund, oltre che nel meno prestigioso ma comunque doloroso ciclo dei pareggini). Tutto vero. Però qualche scelta diversa non la si potrebbe fare? Io voglio bene a Skriniar come fosse mio cugino, ma sta giocando una stagione disastrosa rispetto agli standard cui ci aveva abituato: deve giocare sempre? Ed Eriksen, invece, continuiamo a giocarcelo nell’ultimo quarto d’ora, al netto dei suoi presunti problemi di inserimento (o la sua presenza implica un cambiamento troppo invasivo per il talebano Conte)? Ce lo giochiamo negli ultimi 15 minuti anche dopo aver tirato nello specchio due volte nei precedenti 75?

Il futuro. Seconda sconfitta in campionato, a metà febbraio (due sconfitte in quasi sei mesi, astenersi disfattisti). Abbiamo perso con le due squadre che ci precedono, una circostanza coerente con i valori del campionato e al contempo un po’ inquietante (saremo mica più deboli?). La corsa scudetto non deve finire qua. Abbiamo davanti un’ottima Lazio che sta procedendo a un ritmo infernale e un po’ oltre le speranze e le possibilità: se continua così, chapeau; più realisticamente, è lecito pensare che prima o poi il meccanismo – anche del culo – si inceppi (a loro favore gioca il fatto di non avere più impegni di coppa). E abbiamo davanti la Juve, una squadra tanto forte quanto spesso inguardabile, alle prese con problemi di spogliatoio non del tutto consueti da quelle parti. I gobbi restano favoriti, ma se fossi nella Lazio e nell’Inter non lascerei nulla d’intentato: le crepe ci sono, bisogna essere pronti ad approfittarne.

E noi? E noi adesso dobbiamo cambiare passo. Il ciclo di ferro è iniziato con tre punti in tre partite, una media salvezza. E invece dobbiamo vincere lo scudetto. In una sera resa amara dalla sconfitta io non ho perso un briciolo di speranza. C’è tempo per recuperare punti, forze, convinzione, cazzimma. Certo, non dobbiamo più sbagliare, ma l’Inter del primo tempo con la Lazio non deve temere niente e nessuno. Quella del secondo tempo invece è da prendere a calci in culo, ma a quello spero ci pensi il mister: 11 milioni non glieli danno mica per altro.

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La punizione di Eriksen (l’avesse tirata Ronaldo)

Se la punizione di Eriksen nel derby l’avesse tirata Cristiano Ronaldo, alla Gazzetta sarebbe successo questo:

FASE 1. ALLARME ROSSO

Il caporedattore convoca la task force CR7 composta da un titolista, uno statistico, un fisico, un laureato in scienze motorie, un aedo (in caso di assenza/ferie, un rapsode), un esperto di gossip. La task force agisce nell’immediato e imposta anche il lavoro per i due giorni a venire. Il caporedattore assegna il tema: “CR7 ha preso l’incrocio dei pali (brusio di disapprovazione) ma è stato il più bell’incrocio dei pali di sempre (applausi)“. Ok, al lavoro!

FASE 2. IL TITOLO

Per la Gazza è il momento più delicato della serata, perchè d’intesa con il grafico si deve disegnare immediatamente la prima pagina cercando di non ripetersi con le circa 500 prime pagine già dedicate a Cristiano Ronaldo dal luglio 2018 a oggi. Il caporedattore mette una mano sulla spalla del titolista che sta cercando la miglior concentrazione. “Dunque, CR7, la punizione, l’incrocio dei pali, fammi pensare…” Il titolo gli viene subito: “CR AL SETTE”. Il caporedattore lo bacia in fronte, il grafico inizia a elaborare la prima: CR7 vestito da uomo cannone si protende verso l’incrocio dei pali, raffigurato come una capitello corinzio che si sgretola.

FASE 3. L’AEDO (o il RAPSODE, all’occorrenza)

La cronaca della partita passa in secondo piano di fronte alla nuova impresa di CR7, l’incrocio dei pali più bello di sempre. In 30 righe, impaginate a parte, il cantore descrive il gesto del campione: “Il muscolo guizza quando il cervello dà l’impulso, dal garretto tornito e bronzeo si sprigiona la potenza e il dardo è scoccato…” (il trucco del mestiere del cantore è: sparala più grossa che puoi, ma usa un italiano desueto e ogni dieci parole infilaci un “guizza”, “bronzeo”, “dardo”, robe così)

FASE 4. L’ESPERTO DI GOSSIP

L’esperto di gossip può agire nell’immediato o anche il giorno successivo, scrive cose superflue che saranno tra le più lette, e nessuno le contesterà mai se saranno simpatiche e positive. Ergo: chiama la sua fonte – l’amministratore di condominio del fruttivendolo del cugino dell’agente di CR7 -, si fa dire due parole e scrive con perizia cose inconfutabili, del tipo “Georgina ha esultato dal divano di casa, mandando baci verso il televisore” e “CR7 junior, palleggiando sul tappeto, ha urlato Siuuuuuuu papà!”. Con un abile ritaglio, l’esperto di gossip ricava da una foto di famiglia del Natale 2018 un particolare dello stipite della porta del soggiorno di casa CR7, “l’incrocio dei pali sotto il quale spesso si bacia con Georgina”.

FASE 5. LO STATISTICO

E’ il compito più difficile e ingrato. Lo statistico ha davanti solo una ventina di ore per trovare quale nuovo record può avere infranto stavolta CR7, operazione che spesso richiede una notte insonne con cui verrà ricompensato con due giorni di riposo, come gli infermieri professionali. Il lavoro porta quasi sempre a molteplici spunti, alcuni da usare subito e altri da tenere disposizione in caso di nuove imprese (quindi per la partita successiva). Nel caso in esame, lo statistico partorisce le seguenti opzioni (miglior incrocio dei pali mai colpito da un giocatore portoghese nella settimana del suo compleanno; miglior punizione non vincente di un giocatore europeo nato in un isola ma residente in una città senza sbocco al mare; miglior tiro da lontano di CR7 con la nuova pettinatura) da sottoporre all’ufficio centrale.

FASE 6: IL FISICO

Il fisico trascorre la notte davanti al pc per scomporre il movimento di CR7 e trovarne ogni sintomo di perfezione. In ossequio alla serietà e alla fatica dei suoi studi, il fisico vorrebbe parametrare il tiro di CR7 in base al principio di uguaglianza tra lavoro ed energia, “la potenza misura la quantità di energia scambiata nell’unità di tempo, in un qualunque processo di trasformazione”, poi – sarà il cinquantesimo gol di Ronaldo che gli chiedono di interpretare secondo le leggi della fisica – si rompe il cazzo e va a dormire. Il mattino seguente prepara una relazione in cui, in buon italiano, stende un testo da inframmezzare con tre formulette da terza liceo e da qualche aggettivo a sensazione, “sovrumano”, “impressionante”, robe così, e spedisce. Il caporedattore su Whatsapp gli manda un cuoricino e un pollice alzato.

FASE 7. IL LAUREATO IN SCIENZE MOTORIE

Come fa Ronaldo a tirare così? Quanto bisogna essere seri professionisti per colpire un incrocio dei pali del genere? Come si arriva a 35 anni in queste condizioni? Quanto, come, dove e perchè ci si deve allenare per poter colpire gli incroci dei pali con tale perfezione? Il laureato in scienze motorie (per gli over 45, leggasi “professore di ginnastica”), amico del caporedattore, si presta da tempo con vari pseudonimi a brevi interviste sull’argomento e tiene pronti alcuni schemi che, opportunamente adattati, consentono di rispondere a tono nel giro di pochi minuti, con successo. L’importante è non dimenticare aggettivi del tipo “professionale”, “fantastico”, “meraviglioso” e concetti del tipo “talento innato” e “capacità immense”. Solo una volta, sbagliando file, il laureato in scienze motorie aveva rischiato di creare un grosso casino. Il caporedattore lo aveva richiamato con tono interrogativo: “Scusa, cosa vuole dire che non deve uscire nelle ore calde e deve bere molto?”. “Perdonami, ti ho spedito le risposte sul caldo killer”.

Comunque, la punizione l’ha tirata Eriksen e la reazione è stata questa: “Wow che mina! (sbadiglio) Oh, questo non segna mai. Ci facciamo una birra?”

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La punizione di Eriksen (l'avesse tirata Ronaldo)

Se la punizione di Eriksen nel derby l’avesse tirata Cristiano Ronaldo, alla Gazzetta sarebbe successo questo:

FASE 1. ALLARME ROSSO

Il caporedattore convoca la task force CR7 composta da un titolista, uno statistico, un fisico, un laureato in scienze motorie, un aedo (in caso di assenza/ferie, un rapsode), un esperto di gossip. La task force agisce nell’immediato e imposta anche il lavoro per i due giorni a venire. Il caporedattore assegna il tema: “CR7 ha preso l’incrocio dei pali (brusio di disapprovazione) ma è stato il più bell’incrocio dei pali di sempre (applausi)“. Ok, al lavoro!

FASE 2. IL TITOLO

Per la Gazza è il momento più delicato della serata, perchè d’intesa con il grafico si deve disegnare immediatamente la prima pagina cercando di non ripetersi con le circa 500 prime pagine già dedicate a Cristiano Ronaldo dal luglio 2018 a oggi. Il caporedattore mette una mano sulla spalla del titolista che sta cercando la miglior concentrazione. “Dunque, CR7, la punizione, l’incrocio dei pali, fammi pensare…” Il titolo gli viene subito: “CR AL SETTE”. Il caporedattore lo bacia in fronte, il grafico inizia a elaborare la prima: CR7 vestito da uomo cannone si protende verso l’incrocio dei pali, raffigurato come una capitello corinzio che si sgretola.

FASE 3. L’AEDO (o il RAPSODE, all’occorrenza)

La cronaca della partita passa in secondo piano di fronte alla nuova impresa di CR7, l’incrocio dei pali più bello di sempre. In 30 righe, impaginate a parte, il cantore descrive il gesto del campione: “Il muscolo guizza quando il cervello dà l’impulso, dal garretto tornito e bronzeo si sprigiona la potenza e il dardo è scoccato…” (il trucco del mestiere del cantore è: sparala più grossa che puoi, ma usa un italiano desueto e ogni dieci parole infilaci un “guizza”, “bronzeo”, “dardo”, robe così)

FASE 4. L’ESPERTO DI GOSSIP

L’esperto di gossip può agire nell’immediato o anche il giorno successivo, scrive cose superflue che saranno tra le più lette, e nessuno le contesterà mai se saranno simpatiche e positive. Ergo: chiama la sua fonte – l’amministratore di condominio del fruttivendolo del cugino dell’agente di CR7 -, si fa dire due parole e scrive con perizia cose inconfutabili, del tipo “Georgina ha esultato dal divano di casa, mandando baci verso il televisore” e “CR7 junior, palleggiando sul tappeto, ha urlato Siuuuuuuu papà!”. Con un abile ritaglio, l’esperto di gossip ricava da una foto di famiglia del Natale 2018 un particolare dello stipite della porta del soggiorno di casa CR7, “l’incrocio dei pali sotto il quale spesso si bacia con Georgina”.

FASE 5. LO STATISTICO

E’ il compito più difficile e ingrato. Lo statistico ha davanti solo una ventina di ore per trovare quale nuovo record può avere infranto stavolta CR7, operazione che spesso richiede una notte insonne con cui verrà ricompensato con due giorni di riposo, come gli infermieri professionali. Il lavoro porta quasi sempre a molteplici spunti, alcuni da usare subito e altri da tenere disposizione in caso di nuove imprese (quindi per la partita successiva). Nel caso in esame, lo statistico partorisce le seguenti opzioni (miglior incrocio dei pali mai colpito da un giocatore portoghese nella settimana del suo compleanno; miglior punizione non vincente di un giocatore europeo nato in un isola ma residente in una città senza sbocco al mare; miglior tiro da lontano di CR7 con la nuova pettinatura) da sottoporre all’ufficio centrale.

FASE 6: IL FISICO

Il fisico trascorre la notte davanti al pc per scomporre il movimento di CR7 e trovarne ogni sintomo di perfezione. In ossequio alla serietà e alla fatica dei suoi studi, il fisico vorrebbe parametrare il tiro di CR7 in base al principio di uguaglianza tra lavoro ed energia, “la potenza misura la quantità di energia scambiata nell’unità di tempo, in un qualunque processo di trasformazione”, poi – sarà il cinquantesimo gol di Ronaldo che gli chiedono di interpretare secondo le leggi della fisica – si rompe il cazzo e va a dormire. Il mattino seguente prepara una relazione in cui, in buon italiano, stende un testo da inframmezzare con tre formulette da terza liceo e da qualche aggettivo a sensazione, “sovrumano”, “impressionante”, robe così, e spedisce. Il caporedattore su Whatsapp gli manda un cuoricino e un pollice alzato.

FASE 7. IL LAUREATO IN SCIENZE MOTORIE

Come fa Ronaldo a tirare così? Quanto bisogna essere seri professionisti per colpire un incrocio dei pali del genere? Come si arriva a 35 anni in queste condizioni? Quanto, come, dove e perchè ci si deve allenare per poter colpire gli incroci dei pali con tale perfezione? Il laureato in scienze motorie (per gli over 45, leggasi “professore di ginnastica”), amico del caporedattore, si presta da tempo con vari pseudonimi a brevi interviste sull’argomento e tiene pronti alcuni schemi che, opportunamente adattati, consentono di rispondere a tono nel giro di pochi minuti, con successo. L’importante è non dimenticare aggettivi del tipo “professionale”, “fantastico”, “meraviglioso” e concetti del tipo “talento innato” e “capacità immense”. Solo una volta, sbagliando file, il laureato in scienze motorie aveva rischiato di creare un grosso casino. Il caporedattore lo aveva richiamato con tono interrogativo: “Scusa, cosa vuole dire che non deve uscire nelle ore calde e deve bere molto?”. “Perdonami, ti ho spedito le risposte sul caldo killer”.

Comunque, la punizione l’ha tirata Eriksen e la reazione è stata questa: “Wow che mina! (sbadiglio) Oh, questo non segna mai. Ci facciamo una birra?”

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Padelli d’Italia

Così come in un mondo di John e di Paul noi siamo (nella stragrande maggioranza dei casi) degli emeriti Ringo Starr, in un mondo di Handa e Curtois in panca ci vanno i Padelli, perchè è giusto così, per meritocrazia, per selezione tecnica e naturale, oltre che per una secolare convenzione del football – il portiere è uno, si veste diverso, usa le mani, quelle robe lì. Tu magari ne hai tre o quattro, cavoli tuoi, ma in porta ce ne va solo uno, gli altri guardano e aspettano che il titolare si rompa tipo, chessò, un mignolo del cazzo.

Dell’esistenza e del benessere psicofisico dei Padelli – intesi come categoria del pensiero – normalmente ce ne strafottiamo, finchè tipo cede un mignolo al titolare (il titolare che, per restare al nostro caso specifico, una parte del tifo nerazzurro ancora periodicamente sfancula, dicendo che a Julio questo al massimo gli spicciava i guanti, salvo poi farsi la cacca nelle mutande quando il de cuius è, appunto, indisposto, e a rimpiangere quanto è pazzescamente bravo maledetta sfiga di merda). Anzi, peggio: rosi un poco dall’invidia e dall’altrui 730, fantastichiamo di mondi dorati dove nessuno sta meglio di un Padelli e di un Berni (soprattutto Berni), atleti di professione, uomini stipendiati per allenarsi tutti i giorni con dei campioni, andare in trasferta gratis, partecipare alla cena di Natale, firmare autografi, fare selfie, vedere le partite dalla migliore poltrona di San Siro (a bordo campo, ma proprio bordo bordo bordo).

Il problema è che poi chiediamo ai Padelli, quando viene il loro turno all’improvviso, di entrare in campo come se fossero degli Handanovic, tali e quali, nelle sicurezze, nelle movenze, nelle potenzialità, nel timing, in tutto. Chiediamo ai Padelli di essere le perfette controfigure del titolare quando giocano una partita ogni tre anni – se il mignolo non si riassesta, addirittura due, magari tre o quattro -. Chiediamo a Ringo Starr di suonare l’intro di Let it be al posto di Paul che si è rotto un mignolo inciampando sulle scale. “Figa, non suono una tastiera tipo non so, da tre anni”. Ma mentre discuti sei già sul palco, seduto, e John ti sta guardando: “Dai attacca”. “Sono un portiere”. “Massì, facevo per dire”.

Padelli, dopo tre anni di tribuna rossa primissimo sub-anello, finalmente vede il campo e a stretto giro di una settimana lo abbiamo già vivisezionato. Ha salvato il culo non si sa bene come a Udine, poi col Milan è andato un po’ così. Così così. Vabbe’, oggettivamente, sul primo gol pare di vederlo Handa che si protende sulla sinistra e smanaccia comodo il pallone, che cambia traiettoria, passa dietro il culo di Rebic e va in angolo. 0-0

Oh, poi magari corner, Romagnoli, gol. Magari no. Ma queste sono seghe.

Handanovic è molto più forte di Padelli, che infatti è la riserva di Handanovic. Padelli è un signor portiere, altrimenti non sarebbe il secondo dell’Inter, ma non è Handanovic. Handanovic se non si rompe i fottuti mignoli gioca sempre, se se li rompe deve giocare Padelli. Fin qui ci siamo, è una situazione oggettivamente disegnata da qualità personali, talento, doveri contrattuali e posizione Inail.

Quello che umanamente mi è dispiaciuto è vivere – calandomi nei panni di un Padelli qualsiasi – il lunedì post-derby di Padelli, il nostro, l’originale. La mattina legge le pagelle di 10 giornali e legge sempre la stessa cosa, brutta, parecchio, “buco nero”, “disastro”, “Handa dove sei”, robe che incoraggiano, che rincuorano. Nel pomeriggio, poi, legge sul Televideo che l’Inter sta prendendo un altro portiere, un altro Padelli (stessa età, stessa subalternità agli eventi della vita e alle pieghe della carriera, qualche partita giocata in più, certo, ma poi non tantissime), come se il suo provare a essere – finalmente – un John o un Paul puff! fosse una chance già evaporata, ok Pado, basta così, hai giocato il derby, non ti lamentare, a momenti ce lo inculavi, prendiamo Viviamo che forse è meglio, forse.

Ero ad Appiano il giorno che Viviano si fece male nel corso di un allenamento estivo aperto al pubblico, quando ancora aprivano la tribunetta e la gente arrivava a frotte a vedere Milito, Eto’o, Zanetti, Cambiasso, gente così (e Gasperini). Mi ricordo bene il giorno, perchè alla radio avevano appena detto che era morta Amy Winehouse: 23 luglio 2011. Un pomeriggio di festa, entusiasmo, cori per tutti (persino per Gasperini, giuro). Ero con figlie e nipoti attaccato alla recinzione a vedere qualche frammento di Inter post triplete. Partitella, tiro da lontano, Viviano ci va di piede per accompagnare una palla che sfiora il palo, fa un brutto movimento, chiede di uscire. Il giorno dopo apprenderemo che si era rotto il crociato. Fine.

Aveva 25 anni, l’Inter l’aveva già comprato da un pezzo, tre campionati a Brescia, uno in A col Bologna, un marcantonio talentuoso, pareccho. Poteva essere lui l’Handanovic, e invece – per quella inutile scivolata del cazzo – è rimasto un Viviano, cioè un Padelli. Zero presenze da noi, poi una lunga serie di trasferimenti, un ritorno a certi livelli con la Samp, quindi un trasferimento allo Sporting Lisbona dove lo presentano tipo Neuer e invece diventa un Padelli qualsiasi. Che torni da noi alla soglia dei 35 anni a rivestire una maglia che avrebbe potuto essere davvero sua, vabbe’, è suggestivo e fa anche piacere. Ma Padelli?

Il mondo, che forse con i Padelli non è buono (al limite benevolo), con Padelli – lui, l’originale – se va così è pure un po’ cattivo. E un po’ cattivi lo siamo anche noi. Ha sbagliato, va bene, ma in fondo non è successo nulla, no? Con quei tre/quattro che ha davanti, forse un paio di minuti in porta potrei giocarli anch’io, all’occorrenza, senza fare troppi danni. Questo improvviso attacco di panico – perchè ci accorgiamo il 10 febbraio 2020 che abbiamo tre portieri di 34, 35 e 36 anni e che se si rompe il mignolo sbagliato sono cazzi – boh, mi pare un po’ grottesco. Con Padelli in porta abbiamo fatto 6 punti in due partite. Grazie a Padelli, in fondo, abbiamo giocato la partita più esaltante dell’ultimo decennio. E 12 ore dopo prendiamo un altro portiere di 34 anni, quasi 35?

In tutto questo io abbraccio Padelli e gli dico: non te la prendere. E continua a mettere il mattoncino della tua diligenza, della tua serietà, del tuo spirito di gruppo in questa meravigliosa cosa che stiamo costruendo. In questo mondo di John e di Paul, le canzoni della madonna le firmano i John e i Paul, non ci sono cazzi. Gli altri suonano la batteria, accordano le chitarre, montano i riflettori, guidano il camion. Ma poi sull’albo d’oro ci andate tutti insieme, e a me – a noi – è questo che interessa, giuro, non se uno sbaglia un’uscita (se poi vinciamo un derby 4-2 da 0-2). Viva i Padelli di tutto il mondo, l’apostrofo rosa tra le parole “t’avrei ammazzato ma poi abbiamo inculato in Milan e quindi ‘sti gran cazzi”.

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Padelli d'Italia

Così come in un mondo di John e di Paul noi siamo (nella stragrande maggioranza dei casi) degli emeriti Ringo Starr, in un mondo di Handa e Curtois in panca ci vanno i Padelli, perchè è giusto così, per meritocrazia, per selezione tecnica e naturale, oltre che per una secolare convenzione del football – il portiere è uno, si veste diverso, usa le mani, quelle robe lì. Tu magari ne hai tre o quattro, cavoli tuoi, ma in porta ce ne va solo uno, gli altri guardano e aspettano che il titolare si rompa tipo, chessò, un mignolo del cazzo.

Dell’esistenza e del benessere psicofisico dei Padelli – intesi come categoria del pensiero – normalmente ce ne strafottiamo, finchè tipo cede un mignolo al titolare (il titolare che, per restare al nostro caso specifico, una parte del tifo nerazzurro ancora periodicamente sfancula, dicendo che a Julio questo al massimo gli spicciava i guanti, salvo poi farsi la cacca nelle mutande quando il de cuius è, appunto, indisposto, e a rimpiangere quanto è pazzescamente bravo maledetta sfiga di merda). Anzi, peggio: rosi un poco dall’invidia e dall’altrui 730, fantastichiamo di mondi dorati dove nessuno sta meglio di un Padelli e di un Berni (soprattutto Berni), atleti di professione, uomini stipendiati per allenarsi tutti i giorni con dei campioni, andare in trasferta gratis, partecipare alla cena di Natale, firmare autografi, fare selfie, vedere le partite dalla migliore poltrona di San Siro (a bordo campo, ma proprio bordo bordo bordo).

Il problema è che poi chiediamo ai Padelli, quando viene il loro turno all’improvviso, di entrare in campo come se fossero degli Handanovic, tali e quali, nelle sicurezze, nelle movenze, nelle potenzialità, nel timing, in tutto. Chiediamo ai Padelli di essere le perfette controfigure del titolare quando giocano una partita ogni tre anni – se il mignolo non si riassesta, addirittura due, magari tre o quattro -. Chiediamo a Ringo Starr di suonare l’intro di Let it be al posto di Paul che si è rotto un mignolo inciampando sulle scale. “Figa, non suono una tastiera tipo non so, da tre anni”. Ma mentre discuti sei già sul palco, seduto, e John ti sta guardando: “Dai attacca”. “Sono un portiere”. “Massì, facevo per dire”.

Padelli, dopo tre anni di tribuna rossa primissimo sub-anello, finalmente vede il campo e a stretto giro di una settimana lo abbiamo già vivisezionato. Ha salvato il culo non si sa bene come a Udine, poi col Milan è andato un po’ così. Così così. Vabbe’, oggettivamente, sul primo gol pare di vederlo Handa che si protende sulla sinistra e smanaccia comodo il pallone, che cambia traiettoria, passa dietro il culo di Rebic e va in angolo. 0-0

Oh, poi magari corner, Romagnoli, gol. Magari no. Ma queste sono seghe.

Handanovic è molto più forte di Padelli, che infatti è la riserva di Handanovic. Padelli è un signor portiere, altrimenti non sarebbe il secondo dell’Inter, ma non è Handanovic. Handanovic se non si rompe i fottuti mignoli gioca sempre, se se li rompe deve giocare Padelli. Fin qui ci siamo, è una situazione oggettivamente disegnata da qualità personali, talento, doveri contrattuali e posizione Inail.

Quello che umanamente mi è dispiaciuto è vivere – calandomi nei panni di un Padelli qualsiasi – il lunedì post-derby di Padelli, il nostro, l’originale. La mattina legge le pagelle di 10 giornali e legge sempre la stessa cosa, brutta, parecchio, “buco nero”, “disastro”, “Handa dove sei”, robe che incoraggiano, che rincuorano. Nel pomeriggio, poi, legge sul Televideo che l’Inter sta prendendo un altro portiere, un altro Padelli (stessa età, stessa subalternità agli eventi della vita e alle pieghe della carriera, qualche partita giocata in più, certo, ma poi non tantissime), come se il suo provare a essere – finalmente – un John o un Paul puff! fosse una chance già evaporata, ok Pado, basta così, hai giocato il derby, non ti lamentare, a momenti ce lo inculavi, prendiamo Viviamo che forse è meglio, forse.

Ero ad Appiano il giorno che Viviano si fece male nel corso di un allenamento estivo aperto al pubblico, quando ancora aprivano la tribunetta e la gente arrivava a frotte a vedere Milito, Eto’o, Zanetti, Cambiasso, gente così (e Gasperini). Mi ricordo bene il giorno, perchè alla radio avevano appena detto che era morta Amy Winehouse: 23 luglio 2011. Un pomeriggio di festa, entusiasmo, cori per tutti (persino per Gasperini, giuro). Ero con figlie e nipoti attaccato alla recinzione a vedere qualche frammento di Inter post triplete. Partitella, tiro da lontano, Viviano ci va di piede per accompagnare una palla che sfiora il palo, fa un brutto movimento, chiede di uscire. Il giorno dopo apprenderemo che si era rotto il crociato. Fine.

Aveva 25 anni, l’Inter l’aveva già comprato da un pezzo, tre campionati a Brescia, uno in A col Bologna, un marcantonio talentuoso, pareccho. Poteva essere lui l’Handanovic, e invece – per quella inutile scivolata del cazzo – è rimasto un Viviano, cioè un Padelli. Zero presenze da noi, poi una lunga serie di trasferimenti, un ritorno a certi livelli con la Samp, quindi un trasferimento allo Sporting Lisbona dove lo presentano tipo Neuer e invece diventa un Padelli qualsiasi. Che torni da noi alla soglia dei 35 anni a rivestire una maglia che avrebbe potuto essere davvero sua, vabbe’, è suggestivo e fa anche piacere. Ma Padelli?

Il mondo, che forse con i Padelli non è buono (al limite benevolo), con Padelli – lui, l’originale – se va così è pure un po’ cattivo. E un po’ cattivi lo siamo anche noi. Ha sbagliato, va bene, ma in fondo non è successo nulla, no? Con quei tre/quattro che ha davanti, forse un paio di minuti in porta potrei giocarli anch’io, all’occorrenza, senza fare troppi danni. Questo improvviso attacco di panico – perchè ci accorgiamo il 10 febbraio 2020 che abbiamo tre portieri di 34, 35 e 36 anni e che se si rompe il mignolo sbagliato sono cazzi – boh, mi pare un po’ grottesco. Con Padelli in porta abbiamo fatto 6 punti in due partite. Grazie a Padelli, in fondo, abbiamo giocato la partita più esaltante dell’ultimo decennio. E 12 ore dopo prendiamo un altro portiere di 34 anni, quasi 35?

In tutto questo io abbraccio Padelli e gli dico: non te la prendere. E continua a mettere il mattoncino della tua diligenza, della tua serietà, del tuo spirito di gruppo in questa meravigliosa cosa che stiamo costruendo. In questo mondo di John e di Paul, le canzoni della madonna le firmano i John e i Paul, non ci sono cazzi. Gli altri suonano la batteria, accordano le chitarre, montano i riflettori, guidano il camion. Ma poi sull’albo d’oro ci andate tutti insieme, e a me – a noi – è questo che interessa, giuro, non se uno sbaglia un’uscita (se poi vinciamo un derby 4-2 da 0-2). Viva i Padelli di tutto il mondo, l’apostrofo rosa tra le parole “t’avrei ammazzato ma poi abbiamo inculato in Milan e quindi ‘sti gran cazzi”.

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The great return of Pazza Inter

Nell’ultimo (quasi) decennio, quando ci era capitata una serata così? Riassumendo: derby in casa da vincere, sapendo che la Juve ha perso e che la Lazio ha vinto (nel senso che se vinci sei primo, se non vinci sei terzo); primo tempo di merda in balìa del Milan, di un tuo ex attaccante ormai quasi quarantenne eppure dominante e di un tuo ex allenatore dei tempi medio-bui; secondo tempo a coglioni sguainati per metterne tre, che potevano essere sei, rischiare il 3-3 e poi fare 4-2 con l’Uomo del destino, in un impazzimento generale.

La risposta è: mai. In tutto questi tempo ci siamo concessi qualche emozione, certo, ma sempre di seconda categoria, per non dire terza. Del tipo che in un certo senso siamo costretti a ricordarci come “epiche” partite con la Lazio e con l’Empoli, in cui all’ultimo secondo di campionato agguanti un quarto posto e con esso la Champions. Diciamo che possiamo segnare un discreto upgrade di status e di ambizioni nella sera in cui ribalti un derby che in anni recenti avresti perso 4-0, ritrovi squadra e gasamento dopo un periodo un po’ così e riagguanti un posto in classifica rimontando 4 punti alla Juve in tre settimane. Per molto meno c’è gente che è diventata cieca.

Non mi aspettavo tanto quando dieci giorni fa scrivevo del periodo che ci attendeva dal 9 febbraio all’8 marzo (nove partite in 29 giorni). Pensavo a Inter-Milan semplicemente come alla suggestiva prima partita di un mini-ciclo pazzesco in cui, così, senza tanti giri di parole, ci giochiamo la stagione. E invece il derby è stato – anche – il match della svolta, dopo un gennaio parecchio critico e in attesa di affrontare, step by step, una serie di partite parecchio decisive, alcune cruciali.

Conte voleva eliminare il concetto di pazza Inter, ma l’emozione più bella e violenta di questa già straordinaria stagione ci viene proprio nella serata più patologica, in cui passi dalla depressione del primo tempo al carosello del secondo, con un processo di trasformazione degno solo di alcune menti genialmente malate. La pazzia a fin di bene non può non restare il nostro marchio di fabbrica se i risultati sono questi.

Lukaku che issa la nostra bandiera è lo spot del nuovo decennio. La punizione di Eriksen è il trailer del nostro futuro. Avanti così, ora basta con le mezze parole, le frasette soffocate e le mani sui coglioni: l’Inter ha la sua forma, i nostri obiettivi hanno un nome.

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I guanti di Eriksen e il numero di Jennifer

Ora c’è l’Udinese, poi una settimana normale. Tra domenica 9 febbraio a domenica 8 marzo (29 giorni), invece, giocheremo 9 partite: cinque domeniche e quattro turni infrasettimanali. E non partite qualsiasi. Nell’ordine: 9/2 Milan, 12/2 Napoli (Coppa Italia, in casa), 16/2 Lazio (fuori), 20/2 Ludogorets (Europa League, fuori), 23/2 Inter-Sampdoria (casa), 27/2 Ludogorets (ritorno, casa), 1/3 Juve (fuori), 5/3 Napoli (ritorno, fuori), 8/3 Sassuolo (casa). In 29 giorni ci giochiamo il primo turno in Europa, la qualificazione alla finale di Coppa Italia e – in maniera quasi crudele – buona parte delle chance di campionato, con gli scontri diretti per i primi tre posti e con il derby col resuscitato Milan.

Non c’è la Champions, purtroppo. Ma per ritrovare un tale livello di stress e un tale livello di competizioni (oggi siamo secondi in campionato e in semifinale di Coppa Italia, più la Europa League da iniziare) dobbiamo tornare all’ultima nostra stagione vincente, la 2010/11, quella post-Triplete, in cui – peraltro con il Mondiale per club e la Supercoppa italiana già in saccoccia – nello stesso snodo della stagione ce la giocavamo con il Milan per lo scudo, eravamo in corsa per la Coppa Italia (che poi avremmo vinto) e difendevamo la Champions (fino a quello sciagurato quarto con lo Shalke).

Nel bene e nel male, non c’è molto di casuale in quello che è successo fin qui. La nuova Inter di Suning, quella dei cordoni della borsa aperti e delle ambizioni assecondate, è nata con l’arrivo di un top allenatore, è proseguita con il mercato estivo e – stabilito che ci mancava qualcosa, non per capriccio ma per bisogno, bisogno di upgrade – si completa in questi giorni. Da luglio a oggi alla nostra rosa si sono aggiunti due top player assoluti (che si aggiungono al già nostro giovanotto di belle speranze diventato top in corso d’opera), due stelle un po’ in declino (ma chissà, magari no), due nazionali italiani (più uno che lo diventerà), ora due laterali di qualità (uno di molta qualità). Il tutto innestato nel meglio che avevamo.

Intorno, c’è uno stadio sempre pieno. E più intorno ancora, un entusiasmo da tempi antichi, pur filtrato dalle nostre solite e patologiche tendenze autolesionistiche e da mille questioni di principio – dall’inaccettabilità di Conte alla pippaggine di Lukaku – che ogni tanto andrebbero accantonate per interismo, o per pudore.

Non ho visto il gol di Caceres, mercoledì sera, perchè – come buona parte dello stadio – ero impegnato a vedere Eriksen che correva verso la panchina a riscaldamento completato e, rallentando a pochi passi da Conte, ha accennato all’atto di sfilarsi i guanti, e io non avevo mai visto centinaia e centinaia di persone – me compreso – esultare perchè uno si toglie i guanti. “Si toglie i guanti, entra! entra!”.

E’ la spia di un gasamento innaturale, dopo anni di stenti. Abbiamo trattato un top player nel mercato invernale e lo abbiamo preso. Lui – finalista dell’ultima Champions e stella della Premier – è venuto a Milano carico di entusiasmo, come Lukaku. Con una proprietà solida e un allenatore di grande livello abbiamo ripreso quota anche nella considerazione e nella reputazione. Adesso tocca a noi. A loro, sì, ma anche a noi.

Quello che accadrà da febbraio in poi (e in special modo nelle quattro settimane di fuoco tra il 9 febbraio e l’8 marzo) dipende da tutti. E’ un grande sforzo corale per la nuova Inter, mai così in alto, mai così rampante, mai così competitiva da nove anni a questa parte. Mattoncino dopo mattoncino, forse ci siamo. Dovremmo essere più pazienti? Beh, non pretendete troppo: prendere Eriksen e chiederci di essere pazienti è come darci il numero di Jennifer Lawrence e pregarci di non romperle i coglioni.

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Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda Manganiello

L’immensa, indicibile tristezza per la morte di Kobe Bryant rende stanotte lo psicodramma nerazzurro un po’ ridicolo, com’è inevitabile. E com’è forse giusto che sia. Nel frullatore di emozioni di oggi – le nostre all’ora di pranzo, fino a quelle del mondo intero in serata di fronte alla scomparsa di una giovane leggenda – mettici pure che la Lazio pareggia, che la Juve perde e che il tuo misero punticino con il Cagliari a fine giornata si guadagna il suo perchè. La morte di un immenso campione riporta alla caducità delle cose terrene: il calcio è una faccenda grave ma non seria, le conclusioni si tirano alla fine e i drammi sono altri.

Con il cuore spezzato, parliamo di calcio. Il proverbio di oggi è: quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda Manganiello. Ha arbitrato male? Boh, probabilmente sì, il suo atteggiamento già lo conoscevamo. Non ci ha dato un rigore, questo è certo. Poi? Le ammonizioni c’erano, l’espulsione di Lautaro anche, e il Toro sarà tanto più coglione quante più giornate gli daranno (espulsione e sceneggiata a tempo scaduto, che cagata). Dopodichè direi di fermarci qui, mancano 17 giornate e tante altre cose capiteranno. Capita, per esempio, che tu pareggi (per un autogol sfigato all’inverosimile, tallone più palo, ma vaffanculo) e la butti in tragedia e che poi nelle ore successive le tue avversarie fanno un punto in due, per esempio. Non è tutto già scritto, evidentemente. E se vi piace pensare al complotto, io penso a Mourinho e a come reagiva lui. Nella famosa partita delle manette, ormai quasi 10 anni fa, Inter-Samp, finita 0-0, l’arbitro Tagliavento cacciò fuori Samuel e Cordoba nel corso del primo tempo: Inter in 9, senza i due centrali difensivi. E cosa fece Mourinho? Niente, lasciò dentro tutte le punte, per tutta la partita. Con il gesto delle manette fece esplodere lo stadio e l’Italia intera, ma non tralasciò l’obiettivo di vincere quella partita, anche in 9, senza togliere gli attaccanti.

Ecco, guardiamo alla luna, e non a Manganiello. E guardiamo all’obiettivo che non centriamo più, quello di vincere le partite. Cinque pareggi nelle ultime sette, questa è la luna. Quattro volte in vantaggio e quattro volte raggiunti, questa è la luna. La perdita del controllo della partita per un calo fisico che arriva ormai a orologeria, la quasi totale impossibilità di cambiare le carte in corso d’opera con i cambi: questa è la luna.

Il campionato vero inizierà da domenica prossima, con una squadra che potrebbe uscire rafforzata come non mai dal mercato di gennaio. Con un centrocampista top che ci darà anche soluzioni di tiro dalla distanza e su punizione, con due esterni che ci immaginiamo ben al di sopra della linea di mediocrità su cui eravamo assestati, con una punta esperta (e fisicata) in più a far rifiatare il reparto. Rifiatare sarà uno dei verbi chiave delle ultime 17 partite: una cosa che – tra rosa risicata e infortuni in serie – non ci siamo mai potuti permettere, e si vede.

17 partite sono tante ma, contemporaneamente, non c’è più tempo: tra poco avremo Milan e Lazio a distanza di una settimana, e poco dopo la Juve. Cioè, fra 35 giorni i nostri destini potranno essere già decisi, e quantomeno ben definiti. 17 partite sono tante ma, appunto, non c’è più tempo. Dobbiamo tornare quelli di due-tre mesi fa o saranno cazzi.

Per questo trovo davvero inutile star qui a parlare di Manganiello e del solito presunto complotto plutocalciomediatico nei nostri confronti. C’è un bel modo per andare oltre, ed è quello di vincere. Non lo facciamo più, pur creando quasi sempre tanto (ed è la vera ragione per cui personalmete non mi dispero). Torniamo a farlo, torniamo a chiudere le partite, torniamo a crederci fino all’ultimo secondo. Eravamo primi, ora siamo secondi e virtualmente terzi: ma sempre in cima, nonostante tutto. Riordiniamo le idee, gestiamo le forze e torniamo a vincere. Non maceriamoci nelle presunte ingiustizie: non serve a un cazzo e porta pure male. Torniamo a vincere, e gli altri si fottano.

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Abbastanza in crisi

Per gli appassionati del genere “crisi Inter”, beh, ci siamo. Oddio, non è proprio come una di quelle belle crisacce del recente passato, ma bisogna accontentarsi. Intanto: questa Inter – managgia a lei – nemmeno perde. E quindi che crisi è? Eppure tanto bene non va, avendo pareggiato quattro delle ultime sei mentre, purtroppo, la Juve vinceva le ultime cinque di fila. Risultato: da +2 a -4 in un mese e mezzo, vacanze di Natale comprese, e anche se tutto questo non rappresenta in sè una catastrofe (non solo non abbiamo mai perso, ma in queste ultime sei abbiamo affrontato Roma, Fiorentina, Napoli e Atalanta), ormai non ci sono cazzi: è crisi, punto, rendiamocene conto.

Il pareggio nella partita di Lecce – in quanto, appunto, partita con una piccola – rappresenta il punto più basso del nostro campionato. In assoluto è straordinario che l’Inter canni quasi completamente una partita per la prima volta alla ventesima giornata, ma purtroppo il contemporaneo andamento di Juve e Lazio colora ormai di tinte drammatiche anche i mezzi passi falsi. Non si era mai vista l’Inter, finora, giocare così molle e distratta, creare così poco in attacco, procedere a una velocità mediamente così lontana dai 200 all’ora imposti da Conte come nostro standard di sopravvivenza. Crisi o non crisi, questo è oggettivo.

Perchè tutto questo? Boh. C’è una quota fisiologica di stanchezza, di parabola fisica al culmine dello scollinamento tra prima e seconda parte di stagione. C’è anche – e qui, insomma, ci abbiamo messo del nostro – il dover scontare il clima da commedia dell’assurdo di questo cazzo di mercato in cui vedi un tuo compagno posare con la sciarpa di un’altra squadra e poi tornare a casa, in cui mezza rosa è a sua modo messa in discussione (tra giocatori ormai dismessi, altri destinati alla panca eterna, altri innervositi dai nuovi scenari), in cui i fantasmagorici nuovi arrivi non si realizzano e intanto siamo al giorno 20, le partite passano e l’Inter questa resta.

Fossi meno pigro e meno moralista, sarei andato alla Snai sabato a giocarmi un 20 euro sull’Inter non vincente. Lo si coglieva dal broncio dimesso di Conte in conferenza stampa, così distante dai frizzi e lazzi della partita in Coppa con il Cagliari che ci aveva sorprendentemente restituito la fotografia di una squadra divertente e divertita. Ma era Coppetta, appunto. In campionato, con le responsabilità che crescono, le due avversarie in totale fiducia e il tempo che passa in attesa di un qualcosa che non succede, l’atmosfera si è fatta un po’ più cupa.

Ma è proprio questo che dobbiamo evitare. Al netto di una brillantezza fisica destinata agli alti e ai bassi, è allo spirito che ci ha trascinati in alto e lì ci ha mantenuti che no, non possiamo rinunciare. Per andare a 200 all’ora bisogna essere fisicamente in bolla e soprattutto bisogna crederci, sennò capita di vedere spettacoli modesti come quelli di Lecce. Noi non possiamo limitarci alla normalità, questo è chiaro. Se poi i nostri vertici societari si danno una mossa, tanto di guadagnato. Abbiamo bisogno di certezze. Fosse anche quella che non arriva più nessuno e restiamo quelli di prima. Qui invece è tutto un rimaner sospesi che rischia di far inceppare il più bel giocattolo nerazzurro degli ultimi nove anni.

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A metà strada

Avevo scioccamente riposto qualche aspettativa nella Roma, che mi ha ripagato con due gol (presi) nei primi 10 minuti. Mi piaceva pensare al titolo d’inverno non tanto per quel che vale in sè (poco), quanto nelle responsabilità che poteva darci. Vabbe’, pace, nessuno ci regalerà nulla da qui a maggio. Nell’attesa che alla Lazio svanisca la nuvoletta di Fantozzi al contrario, e che il metabolismo chieda prima o poi il conto ai corpi e alle menti degli atalantini, il duello con la Juve continuerà finchè lo terremo vivo noi, così come abbiamo fatto per l’intero girone d’andata. 14 vittorie, 4 pareggi e una sconfitta, per un totale di 46 punti con un percorso quasi immacolato in trasferta: la scorsa estate ci avremmo messo un milione di firme.

Ieri Conte, al termine di una delle partite più critiche di questa prima parte di stagione – messi sotto come ci era capitato pochissime volte, un secondo tempo allo sbando tipo a Barcellona o a Dortmund -, ha centrato perfettamente il punto. Abbiamo 11 punti in più dell’Atalanta che ci ha strapazzati e questo dà la dimensione di ciò che abbiamo fatto da agosto a oggi. Allo stesso modo, l’impotenza di dare una svolta alla partita attingendo a una panchina semivuota ci dà l’altra faccia della nostra dimensione, quella di una squadra che ha già ricavato il 100 per cento dalle proprie attuali possibilità e che per andare oltre ha bisogno di qualcos’altro. Abbiamo avuto problemi anche peggiori, negli ultimi due mesi. Ma sabato sera sono bastate le assenze contemporanee di due centrocampisti (Barella e Vecino, quindi uno nemmeno titolare) e di un jolly delle fasce (D’Ambrosio) per mettere Conte nella già sperimentatissima posizione di non poterci fare un cazzo (per tacer di Sanchez, cui l’attuale Politano può giusto pulire le scarpe).

Girano nomi importanti: vediamo cosa succede, con serenità. Oggi siamo uno squadrone a gittata ridotta, che così com’è potrebbe essere costretto a fare scelte dolorose quando gli impegni si affastelleranno. Con due o tre innesti, invece, potremo guardare lontano e dare sostanza all’incommensurabile passo in avanti fatto quest’anno in termini di concretezza, attaccamento all’obiettivo, motivazione, cazzutaggine. Al di là delle scaramanzie, è inutile nascondersi o far finta che vada già bene così. No no. Siamo solo a metà strada, vogliamo divertirci ancora un po’. E il bello è che lo possiamo fare davvero.

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