Tristeza (por favor vá embora)

Calcisticamente parlando, gli ultimi due sabati sera sono stati catastrofici. E se sabato 31 maggio si saranno divertiti almeno i gufi di bandiere nemiche, sabato 7 giugno dovremmo tutti sentirci accomunati da un disastro che al confronto quello della Lega alle ultime elezioni Europee è stato un plebiscito. C’è anche chi ha accomunato questi due sabati parlando di apocalisse italiana, ma è una semplificazione assurda. L’Inter ha perso 5-0 una finale di Champions dopo un percorso europeo fantastico e dopo una stagione in cui ha avuto l’ambizione e la possibilità di vincere tutto, finendo purtroppo col vincere nulla. L’Italia, invece, quella sì che è in uno sprofondo totale e sembra che nessuno se ne stia occupando.

L’unico parallelo reale è che entrambe, l’Inter e l’Italia, dopo il sabato catastrofico si sono ritrovate senza allenatore, il che può anche starci. Quello dell’Inter, Simone Inzaghi, è già al lavoro con la sua nuova squadra, in un altro continente, un altro mondo, dove si è presentato con un inglese molto basico (thank you, one more) e con un colorito pallido che lo fa sembra improvvisamente invecchiato. Anche Spalletti poco fa, in conferenza stampa, sembrava imvecchiato e rimpicciolito. Fine dei parallelismi: Inzaghi è in Arabia con l’home banking che trilla come un usignolo, Spalletti è un morto cui tocca ancora camminare fino a martedì, una roba che non si è mai vista e speriamo non si veda mai più, anche se è in un certo senso bello far ridere il mondo intero in un momento così cupo per le sue sorti.

Non si era mai visto un allenatore andare in conferenza stampa ad annunciare il suo esonero. Con colui che l’ha esonerato seduto in prima fila a godersi lo spettacolo e non al suo stesso tavolo a dare spiegazioni. In un club non sarebbe mai successo, ovviamente, e anche questo grottesco atteggiamento tra il dilettantismo e il mobbing distingue la Nazionale dai club, due entità peraltro sempre più distanti e in competizione. Gravina ha detto a Spalletti di ritenersi sollevato dall’incarico dopo lo 0-3 in Norvegia, però gli ha chiesto di andare in panchina anche martedì contro la Moldova. Una partita elementare, la più facile del girone (quella in Norvegia era la più difficile), che adesso diventa interessante psicopatologicamente: una Nazionale di cui in questi giorni si è detto il peggio, condannata (in teoria, certo) già al secondo posto del girone dopo solo una partita (quindi se andrà bene ai play-off che non abbiamo passato già nel 2018 e nel 2022), guidata da uno già esonerato. Meraviglioso.

Sull’Inter, sulla scommessa Chivu e sulle vere ambizioni di Oaktree inizieremo a sapere qualcosa a giorni. Anche la Nazionale dovrà sapere qualcosa a giorni: ma chi si prenderà ‘sta rogna? La Nazionale è in involuzione continua ormai da una dozzina d’anni, per due fattori principali: a) le generazione di giocatori è quella che è, clamorosa è la mancanza di punte decenti negli ultimi 10-12 anni (anche se forse l’ultima vera punta – pura, centrale, forte – è stato Vieri, e quindi parliamo di oltre 20 anni fa); 2) le guide tecniche del dopo 2006 sono state state spesso modeste o poco adatte, e la Nazionale viene ormai percepita da tutti – compresi i giocatori – come un intralcio. Nel 2021 abbiamo vinto gli Europei? Vero. Con la stessa formazione (8/11, non c’erano Chiellini, Bonucci e Chiesa) un anno dopo abbiamo perso lo spareggio con la Macedonia del Nord. Quindi, l’eccezione qual’è stata?

Servirebbe una svolta, ma servirebbero giocatori migliori/più motivati e allenatori migliori. Ecco, l’Inter – come ogni altro club – i giocatori che le servono se li compra o se li fa prestare. Per la Nazionale è più complicato, salvo ogni tanto naturalizzare qualcuno per tappare buchi o provare a pescare il jolly. Ogni volta aspettiamo un nuovo corso. Il prossimo inizia così: un ct esonerato che va in panchina da morto che cammina, la solita ricerca del prossimo tra il poco che offre il mercato, il solito andare e venire tra esaltazioni e depressioni, facendo finta che un girone con Estonia, Moldova e Israele – oltre che la spaventosissima e fortissimissima Norvegia – sia un banco di prova e non una robaccia che una ventina d’anni fa avremmo chiamato materasso, oppure merda.

My two cents? Io chiederei a Ranieri se ne ha voglia. E’ un signore cui si deve rispetto, sa trattare con i giocatori, potrebbe dedicarsi al compito con tutto se stesso senza altri pensieri e senza lo stress del quotidiano, lo vivrebbe come un grande onore. In più ha casa a Roma. E parla chiaro, senza supercazzole. Ma Gravina avrà sicuramente un’idea migliore.

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La passione di Cristian

Alla trentaseiesima ricostruzione diversa dell’addio di Inzaghi – quando aveva deciso di andare tra i cammelli a 25 cocuzze/anno? una settimana fa? due settimane fa? un mese fa? due mesi fa? durante la Supercoppa? sul pullman scoperto della seconda stella? quando ancora allenava gli Allievi regionali della Lazio? – e alla quattordicesima versione della trattativa con Fabregas – è dell’Inter, è fatta, siamo ai dettagli, si prendono un po’ di tempo, c’è qualche ostacolo, mancano garanzie, col cazzo che viene, ma davvero pensavate che sarebbe venuto, ma dove vivete, ma vergognatevi – ero così devastato che ho accolto con sollievo la notizia dell’accordo con Cristian Chivu. Cinque giorni dopo aver perso la finale di Champions e dopo avere attraversato nelle ultime ore pensieri tetri e scomposti – basta, è finita, come minimo per 87 anni non vinceremo più nulla, è la fine, “ehi, dimenticavi moriremo tutti”, ah grazie sì, moriremo tutti, siamo già morti, vabbe’ comunque retrocederemo – abbiamo un nuovo allenatore.

Tutto il resto, il pregresso, non conta più niente.

Possiamo guardare avanti, serenamente. Beh, oddio, proprio serenamente magari no. Ma ci possiamo provare. I pronostici infausti sull’effettivo valore di Cristian Chivu mi ricordano quei mugugni allo stadio con cui a Milano sono state stroncate fior di carriere al primo stop sbagliato, e qualche volta quando la palla doveva ancora arrivare a destinazione. Cioè, mi fanno incazzare. Vedremo cosa succederà e vedremo i risultati, che fatalmente parleranno per lui. Per adesso, a bocce ferme, Chivu è il nostro allenatore. Meglio se fosse rimasto Inzaghi? Meglio se fosse arrivato Klopp? Beh, ci sta. Ma Chivu è il nostro allenatore.

Personalmente, mi preoccupa molto di più Oaktree di Chivu. E forse anche lo stesso Chivu sarà più preoccupato di cosa gli metterà a disposizione Oaktree che dei nostri milioni di occhi puntati addosso. Dopo quattro anni di Inzaghi, si doveva comunque voltare pagina. La scelta di Chivu a me non dispiace, sentimentalmente. E’ un nostro ex giocatore, è un allenatore che si è forgiato da noi. Il Bayern, per dire, ha preso Kompany appena retrocesso in Premier con il Burnley, non Klopp o Mourinho. Non ci sono solo scelte scontate, a volte si può azzardare. Dopo Spalletti, Conte e Inzaghi – dopo cioè 8 anni “mainstream” – azzardiamo anche noi.

Inzaghi ha preso in giro l’Inter? L’ha messa in difficoltà, quantomeno? La società si è fatta prendere in contropiede, molto impreparata all’evenienza? Non lo sapremo mai. E comunque, who cares? Chi se ne frega? Abbiamo un allenatore e si chiama Cristian Chivu, il resto ormai è fuffa. Certo, se questo fosse un anno normale adesso ce ne andremmo al mare e aspetteremmo i primi di luglio, la presentazione alla Pinetina e la prima amichevole con la rappresentativa Sud delle Valli-Engadina per iniziare a vivere questa nuova avventura e a esprimere i nostri giudizi da espertoni. Ma in questa stagione allucinante succede che te ne devi andare in America a giocare il Mondiale per club, che se va bene – cioè, se esci – durerà fino a fine mese.

Sarà l’occasione di iniziare a conoscerlo, a conoscersi. Sarà l’occasione di intravedere la sue futura Inter. Io sono molto più preoccupato di Oaktree. Per Chivu no, sono solo curioso. Ha una bella chance, se la giochi com’è giusto che sia. Noi cerchiamo di portare pazienza, se ce la facciamo. Il nostro allenatore si chiama Cristian, ci conosce bene, ama l’Inter. Non è mica poco. Benvenuto Chivu, ora insegna a te stesso a stare dentro l’area tecnica.

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Ma’aal salamah *

* È una formula di saluto, simile a “arrivederci”, usata per augurare buon viaggio o benessere a chi si sta congedando, in particolare quando ci si aspetta di non rivedersi presto. “Salām” in arabo significa “pace” e ha un legame con la salvezza e la salute. In italiano, si potrebbe tradurre con “alla salute” o “sii prudente”. 

Più ci penso e più vedo, molto prima dell’inspiegabile 0-5 di Monaco, cose assai più inspiegabili prima, sparse qua e là per la stagione (o situazioni incombenti, a colorarla tutta). Per dire: com’è stato possibile che l’Inter, questa imperfetta e un po’ bolsa Inter, fino al 23 aprile fosse in corsa per il Triplete?  E non stiamo parlando di teoria: è stato proprio così, ci siamo andati a un pelo. Siamo usciti in semifinale in Coppa Italia (giocando il ritorno in casa e avendo pareggiato l’andata); abbiamo perso lo scudetto alla penultima giornata (e siamo stati campioni d’Italia per 20 minuti nell’ultima); abbiamo perso la Champions in finale dopo aver eliminato Bayern e Barcellona e dopo un percorso quasi netto (primi del ranking Uefa stagionale). Com’è stato possibile? Come è stato possibile, comunque che fino alle ore 21 del 31 maggio eravamo ancora lì lì per entrare nella storia? E come è stato possibile, quindi, che 20 minuti dopo ne eravamo già irrimediabilmente fuori?

Intendo dire, tornando alle cose inspiegabili: com’è stato possibile fare tutto questo – sognare oggettivamente un Triplete, buttare via un campionato, arrivare in finale di Champions dopo averla sostanzialmente dominata – con Lautaro fuori forma per mesi e che in campionato segna la metà dei gol dell’anno prima, con altri giocatori-chiave – su tutti Cahlanoglu e Dimarco, ma anche Miki – sotto tono per gran parte della stagione, con in panca tre attaccanti che non ne fanno uno, e poi buttando via tre partite in cui eravamo in vantaggio di due gol, subendo 18 gol dall’80’ in poi, giocando 59 partite senza poter mai tirare il fiato? Che razza di stagione abbiamo vissuto, nonostante tutto? Non è tutta inspiegabile, la stagione?

Ecco, se c’è una spiegazione che do all’inspiegabile, questa è Simone Inzaghi. E’ stato lui a tenere unito il gruppo e a mantenere la barra dritta attraverso i numerosi alti e bassi vissuti in nove mesi e mezzo, tra infortuni e imprevisti, distrazioni e cali di appetito, scricchiolamenti e dissipazioni. La macchina perfetta della seconda stella si è inceppata in un tot di occasioni ma Inzaghi ha evitato il crollo, ogni volta, almeno fino a Inter-Barcellona. Non è il Conte spremitore di limoni: Inzaghi è un fratello maggiore a cui non puoi non volere bene, è una brava persona a cui non puoi dire di no. Non è il Conte risultatista che trova il modo di esaltare i singoli: è un giochista per vocazione che si esalta attraverso la squadra. E lui per questi quattro anni ha continuato imperterrito a ringraziare, ringrazio i ragazzi, ringrazio questi giocatori, si vincesse o si perdesse, piovesse o tirasse vento. E’ un meccanismo virtuoso che si è inceppato un mesetto fa.

In fondo, da uno come Inzaghi è inspiegabile sentir dire alla vigilia della finale di Champions che sì, ci sono le offerte, che poi vedrà. Manco Mourinho l’aveva fatto, pur andando via un minuto dopo aver sollevato la Coppa a Madrid. Lo ha detto, Simone, alla fine di una stagione superiore alle sue forze e alla sua pazienza, rassegnato al fatto di non vedere mai troppo riconosciuta la bontà del suo lavoro, stizzito dal passare come perdente invece che come un Re Mida dei parametri zero e dei rifiuti altrui, oltre che dei bilanci risanati a forza di non-investimenti. Aveva già deciso molto prima? Inter-Barcellona è stato l’incredibile canto del cigno di una squadra che forse non c’era già più e del suo allenatore che più di così non poteva fare. Succede che una stagione meravigliosa – inspiegabilmente meravigliosa – si risolva così, perdendo su ogni fronte. E che tu, l’allenatore più talentuoso d’Italia, passi alla storia anche come il più perdente, così, de botto, che il 23 aprile avevi tutto e il 31 maggio non hai più niente, anzi, manco più la reputazione dopo averne presi cinque in finale di Champions.

Col campionato perso così, e con la Champions persa così, Simone Inzaghi non poteva più rimanere. Al primo inciampo l’avrebbero massacrato, alla prima partita deludente avrebbero iniziato il countdown del panettone. I suoi ragazzi forse non si sarebbe più fidati ciecamente. E d’un tratto non vale più niente tutto quello che hai fatto, i sei trofei, la seconda stella, e nemmeno la fascinosa (e inspiegabile) avventura di quest’anno, vissuta partita dopo partita, ogni volta spostando il traguardo più in là di una casella sperando che la baracca rimanesse in piedi. Il 5-0 di Monaco è la cosa più spiegabile di tutti: una squadra svuotata di energie e con i nervi a fior di pelle, con l’allenatore molto più di là che di qua, dopo 5 minuti di partita capisce che non c’è niente da fare contro una squadra che corre il triplo e ha un’altra faccia, un’altra postura, un’altra fame. E’ la cosa più spiegabile di tutte.

Quattro anni su una panchina di Milano sono un’eternità. Inzaghi l’ha riempita di uno storico scudetto e di cinque coppe. Gli toccherà essere ricordato soprattutto per due scudetti buttati via e per due finali di Champions non vinte. E’ crudele ma è così. Forse è anche per questo che se n’è andato via frettolosamente, per non girarsi troppo indietro. Dopo quattro anni a ringraziare i ragazzi, nel messaggio di addio quasi non li nomina. Va in Arabia sicuramente per soldi, ma anche per stare un po’ lontano da qui. Il sole e i dollari gli riscalderanno il cuore. Sparirà dai radar del calcio, gli verrà presto la voglia di tornare (non da noi, speriamo non con maglie avverse). Ma’aal salamah, ci mancherai. Ci hai fatto divertire come nessuno, ma un bel gioco dura poco: quattro anni, per noi, sono un’era geologica. Addio, ora insegna agli arabi a fare tre passaggi di fila.

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Cinque a zero

Per volergli bene, certo, gliene vogliamo un sacco. Chiunque di noi, a bordo campo, avrebbe aspettato uno a uno i ragazzi per un abbraccio, una pacca sulla spalla, un grazie sussurrato in un orecchio per tutte le emozioni e le meraviglie di quest’anno. E non è ipocrita sentimentalismo dire che dobbiamo e possiamo solo ringraziarli per tutto quello che hanno fatto in questa stagione. Non lo è. Ce lo eravamo detti un mese e mezzo fa: guys, può essere Triplete o può essere niente, la gloria eterna o un pugno di mosche, are you ready? E tutti in coro: yeaaaaaahhhh, certo, perchè eravamo belli carichi (e non avevamo ancora visto le due partite col Barcellona, pensa un po’). Solo che alle catastrofi nessuno è veramente attrezzato, nè loro nè noi. Il 23 aprile alle 20.59 eravamo in corsa per il Triplete e il 31 maggio alle 22.59 non ci resta niente in mano. Dopo una catastrofe, appunto. Perché perdere 5-0 una finale di Champions è una catastrofe, non ci sono cazzi.

Quindi, dato per scontato che nessuno sia sceso dal carro del perdente – con l’Inter, con i ragazzi e con il Demone sempre e comunque -, è forse giusto da qui, appunto, da sopra il carro, insieme ai ragazzi affranti e svuotati che si sono esposti in Mondovisione a una figuraccia che nessuno si meritava, affrontare a botta calda le conseguenze di questa sconfitta che forse chiude un ciclo, perchè il divario di energie e di freschezza mentale tra Inter e Psg nella finale di Monaco è stato devastante e impone qualche riflessione, anche urgente.

Ascolta “E quindi uscimmo a riveder le stelle” su Spreaker.

Siamo arrivati alla finale grazie al gol miracoloso al 93′ di uno stopper di 37 anni con il piede sfavorito e la scarpa bucata, sono quelle cose che per fortuna nello sport e nella vita ogni tanto avvengono – sai che noia, sennò – e ne parlerai per anni, forse per secoli. Ma è stato un miracolo. Stasera all’Allianz Arena non ne sarebbero bastati quattro, di miracoli, perchè avrebbero vinto loro 5-4. La nostra stagione, dal punto di vista della sostenibilità, era finita con la beffa di Bologna, un gol a tempo scaduto per nulla meritato, cioè una bastonata. Tre giorni dopo ne prendi tre dal Milan in semifinale di Coppa Italia, una resa incondizionata che abbiamo cercato di giustificare con “meno male, così non abbiamo anche la finale di Coppa Italia”, meno male un cazzo, un’altra bastonata, con tutte le implicazioni del quinto derby non vinto in stagione. E poi Inter-Roma, questa pure con l’aggravante del furto: tre sconfitte in una settimana. Le due partite con il Barcellona sono state la strepitosa – forse addirittura irrazionale – reazione del gruppo sul palcoscenico di una sfida fascinosa e stimolante che ti ha costretto a tirare fuori tutte le energie possibili, le ultime purtroppo. Con uno sforzo minimo avremmo vinto il campionato, ma non avevamo più la forza di finire decorosamente una partita. A Monaco siamo arrivati spenti di testa e fisicamente prosciugati. Vittime dei nostri stessi sogni, eroicamente protratti finchè abbiamo avuto benzina e anche dopo che l’abbiamo finita, quando siamo scesi a spingere. Per poi crollare a terra mezzi morti.

E’ finita qui l’Inter di Inzaghi, una gioia per i nostri occhi anche se non vincente come avrebbe voluto e potuto? Boh, questo lo decideranno Inzaghi, Marotta e i nostri padroni di Oaktree che spero abbiamo notato la differenza tra andare al risparmio e investire sul futuro. Finisce forse qui una “certa” Inter, quella che si regge su una meravigliosa accolita di ultratrentenni, finchè questi reggono, però. Senza poter mai rifiatare, senza poter mai recuperare, senza potersi mai gestire. E’ stata una stagione meravigliosa per pathos, vissuta spostando in avanti il traguardo di partita in partita, nella convinzione generale che andasse tutto bene, sempre bene. Per i miracoli (fare sette gol in due partite al giovanissimo e rampantissimo Barcellona) siamo attrezzati, perchè il valore – e i valori – di questa Inter sono un vanto per la storia della società. Ma per le catastrofi non siamo attrezzati, tipo prendere cinque gol in 90′ dal giovanissimo e rampantissimo Psg, alla partita numero 59 della stagione, giocata sulle ginocchia dal minuto 1.

Questa notte è difficile filosofeggiare su un 5-0 sul groppone, ma forse è un bene. Avessimo perso 1-0 tipo col City, con Thuram che respingeva un tiro a colpo sicuro di Lautaro, saremmo qui a rotolarci per terra dalla disperazione. L’Inter delle due partite col Bayern e delle due partite col Barcellona ha strameritato la finale di Champions e quell’Inter lì forse l’avrebbe potuta vincere, al netto della prestazione impressionante del Psg. Ma anche l’ipotetica Inter vincente, all’inizio della nuova stagione, avrebbe avuto un anno in più. E dove sarebbe andata, con 50-55 partite minimo da disputare in stagione? Prendiamola come un’amarissima, devastante, stravolgente opportunità: dalle macerie di Monaco va progettata una nuova Inter, con più forze, più opzioni, più gioventù, anche più fame. Credo tocchi a Marotta fare sintesi e imboccare una strada definita. Oaktree ci faccia sapere che intenzioni ha. Simone pure.

Grazie ragazzi. E forza Inter, sempre.

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-0. L’Ernesto

Narra la leggenda – più che altro lo narrava lui, sempre divertito ma con quell’orgoglio al quadrato che non riusciva mai a nascondere, l’orgoglio dell’interista e l’orgoglio del self-made man – che domenica 4 aprile 1954 Ernesto Pellegrini andò per la prima volta allo stadio a vedere l’Inter. L’avversaria era la Juve e finì 6-0 per noi. Un battesimo con i controfiocchi, accidenti. Ma l’Ernestino – aveva 13 anni, andava per i 14 – la partita non la vide: c’era così tanta gente che rimase bloccato sulle scale insieme a tanti altri tifosi e dovette accontentarsi dei boati, pur numerosi e molto festosi. Narra la leggenda – sempre lui, vedi sopra, che te la raccontava guardandoti un po’ di traverso, per valutare il tuo grado di ammirazione – che l’Ernestino, lasciando San Siro, abbia detto: “Non capiterà mai più, a costo di comprare la squadra e diventare presidente dell’Inter, così il mio posto ce l’avrò sempre”. All’epoca l’Ernestino era figlio di un verduraio, stava finendo le scuole medie, dava una mano al papà e abitava in una cascina a Rogoredo, che oggi è una nota stazione ferroviaria e un noto boschetto della droga, ma a quei tempi era davvero campagna. Comunque, per farla breve, 26 anni dopo entra nel cda dell’Inter e 30 anni dopo precisi, nel 1984, all’età di 44 anni, la compra davvero (da Fraizzoli) e diventa presidente.

Nel farla breve, tocca ridurre a pezzettini la storia umana e imprenditoriale di un giovane uomo che all’alba è all’Ortomercato e di giorno studia Economia all’università (lo fa per tre anni, poi rinuncia e resta ragioniere), entra da contabile alla Bianchi, quella delle bici, e per un caso della vita coglie al volo l’occasione di gestirne la mensa aziendale, così, al buio, da zero, sapendone poco o niente. Nel giro di qualche anno diventerà il re italiano delle mense, con novemila dipendenti sparsi per il mondo e fatturati spaziali. Gestirà, tra le mille altre, anche la mensa della Juve a Villar Perosa (è per quello che l’Avvocato lo definiva “il mio cuoco”). Diventa miliardario ma rimane sempre un imprenditore di vecchio stampo, quelli fieri della propria storia (iniziata vendendo ciuffetti di prezzemolo vicino al banco del papà) e attenti agli altri. A Milano aprirà il Ruben (il nome è di un suo vecchio amico diventato clochard, morto assiderato per strada), ristorante da 500 coperti riservato alle persone in difficoltà, dove si mangia con 1 euro. E’ molto religioso, ma anche spiritoso: dice che ha due fedi – l’altra è l’Inter.

Comprare l’Inter per lui fu un fatto di orgoglio, di vanto e di sconfinato amore. In quel passaggio di consegne tra due milanesi di una volta c’è tanta Inter, tantissima. Del resto Fraizzoli aveva preso la società da Angelo Moratti, e Pellegrini la cederà a Massimo. Tanta Milano, tanta Inter. Pellegrini lascia subito il segno da imprenditore – ristruttura la Pinetina, che intitola ad Angelo Moratti, e organizza il trasloco della sede da Foro Bonaparte a piazzale Duse – e ci metterà un po’ a lasciarlo da presidente. Si presenta con il botto, con Rummenigge, e saranno entrambi poco fortunati (ma che ricordo ha lasciato il Kalle pur non avendo vinto niente?), attraversa qualche stagione un po’ così nonostante gli sforzi, poi si affida a un altro milanese – il Trap – e costruisce l’Inter dei record, l’Inter dei tedeschi ma anche di Zenga, Bergomi, Ferri, Berti, Matteoli, Serena ecc. ecc., l’Inter che resterà il suo grande capolavoro.

La sua avventura da presidente durerà 11 anni: uno scudetto e due Coppe Uefa, un bottino molto lontano da quelle che erano le sue ambizioni e dalla massa di denaro e di passione che ci ha buttato dentro. Kalle e Trap e Lothar, ma anche Bergkamp e Scifo e Orrico. Un presidente non fortunato quanto avrebbe meritato. A un certo punto – vinta la Uefa nel 1994, pochi giorni dopo aver sfiorato la retrocessione in B – dice basta, non tanto per le scarse soddisfazioni nerazzurre, quanto perchè in azienda, con il presidente troppo distratto e qualche manager non altezza del compito, le cose non vanno più benissimo. E il self-made man decide che basta, il tempo della grandeur è finito, si torna alla scrivania vera, quella da re delle mense. Anche la cessione della società a Moratti passa attraverso qualche asperità che tra signori non ci si aspetta. Ci resta un po’ male. Non andrà più allo stadio fino al 2007, quando tornerà a festeggiare il secondo scudetto del Mancio.

Stasera giochiamo una finale di Champions League con il lutto al braccio e un interista di meno – uno vero, appassionato, persino un po’ matto in quel suo totale amore – davanti alla tv. Un motivo in più per fare bella figura, l’Ernesto avrebbe apprezzato.

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-1. Orgoglio e pregiudizio

La sera dell’11 marzo, mentre ancora si stava giuocando Inter-Feyenoord, io mi sono sentito come il futuro imperatore Costantino alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio: secondo la leggenda (che confermo, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali), mentre ero in piedi davanti al televisore e gioivo per il rigore-sicurezza del nostro turco (dunque un infedele, ma noi siamo figli del mondo e molto inclusivi), mi comparve in ologramma lo stadio di Monaco di Baviera, con accanto il simbolo della croce – in realtà, era la nostra maglia del centenario. “In hoc stadio vinces”. E così sul telefonino appicciai Facebook e volli rendere partecipi tutti i miei amici della rivelazione: che non avremmo giuocato all’Allianz Arena solo il quarto di finale con Bayern in cui ci davano un po’ per sfavoriti, ma anche la finale del 31 maggio.

Ok, chiudo la rubrica “Sì, ok, me la tiro, problemi?” e apro quella “Sì, ok, è la vigilia, ho i battiti accelerati e mi defeco nei pantaloni, problemi?”

Ecco, la cosa che cercavo di dire da due giorni è questa: lo straordinario cammino nella Champions 2024/25 sarà il nostro booster di orgoglio e consapevolezza per la finale, oppure sarà un carico di pressione negativa, quel che per i tennisti è il braccino, per la paura di rovinare tutto alla fine (che poi, avendo paura, la rovini davvero)?

Ascolta “Meno uno” su Spreaker.

E’ un discorso che può valere anche per loro, per carità. Una squadra che nella fase iniziale perde tre delle prime cinque partite (di cui tre giocate in casa) e nella sesta partita trova il City – a Manchester – e a 40′ dalla fine sta perdendo 2-0, beh, starà forse pensando a quale sciagura sarebbe rovinare un miracolo del genere, iniziando vincendo quella partita 4-2 e poi le altre due del girone unico, acchiappando i play off (col Brest, che culo) e poi nella fase a gironi far fuori Liverpool, Aston Villa e Arsenal, tre inglesi una dopo l’altra. Quando mai era capitata al Psg una roba del genere, e quando mai gli ricapiterà?

Ma di quello che pensano i francesi me ne frega il giusto – cioè un cazzo. Mi interessa quel che pensiamo noi. E vorrei che noi (noi, cioè i ragazzi) pensassimo a noi, più che a loro. Cioè, adesso potremmo stare qui a sfondarci di analisi tattiche, a fare l’elenco dei problemi nell’affrontare una squadra che dà pochi punti di riferimento, fa del possesso costante e avvolgente la sua forza e si sente finalmente liberata da quella allure di collezione di fenomeni e/o saltimbanchi, approdata com’è all’essere una squadra meno fascinosa ma molto più autentica e coesa. Ma quali analisi tattiche si possono fare dopo avere visto Yamal in Inter-Barcellona e avere constatato che l’unico uomo in grado di fermarlo sistematicamente era Taremi?

Il calcio è un grande inganno.

In una finale di Champions il braccino lo devi mettere in conto: due anni fa il City giocò col braccino, noi con la mente più sgombra e tutte le differenze sembrarono annullarsi. A Monaco lo dobbiamo mettere in conto soprattutto noi, che non siamo più i valorosi ma fortunatissimi imbucati di due anni fa a Istanbul, ma siamo una squadra che ha spaventato l’Europa, poche balle, e l’ha spaventata non occasionalmente. L’ha spaventata sistematicamente. Ecco, appunto: la spaventeremo anche domani? Spaventeremo, nello specifico, anche il Psg?

Nelle 14 partite che abbiamo giocato in Champions (14 partite tirate e dispendiose, che ci sono costate lo scudetto ma ci hanno dato – quasi tutte – un grandissimo godimento) mi piacerebbe fosse tenuta nel debito conto l’unica che abbiamo perso (il Psg, al 90°, ne ha perse 5 su 16, tante), quella di Leverkusen, con un gol all’ultimo minuto. L’unica partita in cui l’Inter non ha fatto l’Inter: cioè, non si è imposta. Parcheggiare i pullman e tirare a campare – al netto di una quota di prudenza che non si nega a nessuno, tantomeno in una finale di Champions – non è il nostro mestiere, ce lo siamo detti un sacco di volte. Gli altri sono gasati, giovani, positivi, eccitati dalla grande occasione. Ma noi, se vogliamo, possiamo essere l’Inter di Champions. E l’Inter di Champions – a bocce ferme, e poi in corso d’opera – non teme confronti.

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-2. Se un marziano

(Pavia, esterno giorno. 30 gradi. Esco a fare quattro passi e incontro un tipo strano)

“Ciao terrestre!”

Ciao cosplayer, guarda, scusa, sono uscito senza portafoglio e…

“No no, solo un’informazione. Sono un marziano che è appena atterrato sul pianeta Terra e vorrei chiederti alcune cose”.

Scusa, ma dove hai parcheggiato?

“Lì in fondo vicino a quello strano edificio con dentro un prato verde (indica un’astronave nel parcheggio dello stadio). Va bene?”

Sì, certo, strisce bianche, puoi lasciarla lì finchè vuoi. Posso aiutarti?

“Sì, magari! Allora, sono stato mandato qui dal mio Ministero dello Sport per assumere delle informazioni sulle vostre usanze e sugli eventi sportivi di maggiore importanza del vostro pianeta. Mi è stato detto che questo è il testo più interessante da consultare (mi mostra una copia della Gazza)“.

Sì, corretto. Abbastanza corretto. Sì, insomma, per un marziano va più che bene. Con tutto il rispetto, eh?

Ascolta “Meno due” su Spreaker.

“Sto stilando sulla relazione sull’evento sportivo più importante del pianeta Terra e quindi volevo chiederti…”

Ah beh, sulla finale di Champions League so più o meno tutto, dimmi pure, sono una persona informata sui fatti, dunque, devi sapere che…

“Champions cosa? Ah, Champions League, sì. Ok, è al ventiduesimo posto sulla home page di Gazza.it in questo momento. Ho altre ventuno domande da farti prima, se hai tempo. Da questo testo ho appreso che l’avvenimento sportivo più importante del pianeta Terra è l’arrivo di Allegri al Milan”.

Non mi dire.

“Sì. Mi dai due info?”

Allora, lui è un grandissimo rimpicoglioni e ha già allenato il circo Medrano dove giustamente torna per rimettere le cose a posto, dopo alcune gestioni molto folk.

“Grazie. Poi avrei Roland Garros, Giro d’Italia, Heysel, Gasperini…”

Senti, non ho tutto ‘sto tempo. Potrei parlarti invece della Champions che è un grandissimo evento e…

“No no, andiamo per ordine. Chi è questo Gasquet?”

No, ascolta. Facciamo così: estraiamo una domanda a caso e poi vattene affanculo tu, Marte, i marziani, Musk, the Mask, la Gazza e l’ordine mondiale delle cose.

“Aspetta, ho giusto una app per estrarre un argomento a casa. Ecco… 3, 2, 1… Sophie Rose”.

E che roba è? Tennis? Atletica leggera? Volley?

“No, aspetta…”

Sci? Sollevamento pesi? Badminton? Freestyle? Burraco? Pole dance?

“No, aspetta, copincollo. Una signora, di nome Sophie Rose, ha lasciato l’auto in un parcheggio dell’aeroporto di Stansted prima di partire per l’Irlanda. Al suo ritorno, la signora Rose ha dichiarato di avere ritrovato la sua vettura con danni per un valore di circa 6.500 sterline (circa 7.761 euro al cambio del 27 maggio 2025), provocati da un incidente avvenuto ad Harlow, località a oltre 22 km di distanza dallo scalo aeroportuale. La proprietaria ha detto di aver ritrovato il veicolo con il bagagliaio alzato e il paraurti completamente distrutto. La società tramite cui aveva prenotato il parcheggio con servizio “meet-and-greet” era segnalata come servizio di parcheggio sicuro. Il direttore dell’aziendo si è difeso così: “Respingiamo qualsiasi insinuazione secondo cui le auto dei clienti siano state utilizzate per scopi diversi dalla custodia e restituzione ai proprietari – prosegue -. Dovendo gestire più di 300 chiavi alla volta, può però capitare che a volte alcune chiavi, a causa di errori umani, vengano smarrite”.

Scusa?

“Ecco, di che sport si tratta? Perchè l’ho letto su questo giornale di colore rosa e…”

Scusa, posso vedere?

“Certo, prendi pure”.

(accartoccio la Gazza, strappo le pagine, ne mangio una, le altre le appallottolo e le butto nel naviglio)

“Ehi, terrestre, era un documento fondamentale!”

Comunque ti riassumo tutto quello che so sulla Champions League – fìdati, è importante – e che ho letto su questo giornale e sul sito. Allora: l’Inter stanotte dorme ancora ad Appiano e parte domani per Monaco di Baviera dove è attesa per pranzo.

“Wow, interessante (prende appunti)! E poi?

E poi niente, tutto qui.

“Scusa, ma c’è più roba su: paura a Chicago, camion esplode per strada”.

Beh, a Chicago è un problema molto sentito. Scusa, debbo andare, mi scade il disco orario.

“Ciao terrestre, grazie per il tempo che mi hai dedicato”.

Figurati. Toh, prendi questo.

“Le Ore mese? Cos’è?”

Antiche usanze del pianeta Terra. Ciao amico mio.

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(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #135, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Cioè, siamo in finale di Champions, è una stagione meravigliosa: vi mancano gli argomenti?

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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-3. Intestino sereno, mente rilassata

Dove eravamo rimasti? Ah, sì. Dunque, è un discorso lungo. Un attimo ancora, però. Sono circa le 14, tg di La7, arrivano le notizie sportive. Uhm, mi metto comodo. Prima notizia, il valzer degli allenatori. Ok, adesso diranno ancora che il Dem… no, si parla di Conte, di Allegri, di Gasperini, di Palladino, di Italiano, niente Demone. Seconda notizia: “Ma c’è un allenatore che punta all’Europa bla bla bla”, oh finalmente, adesso parleranno di Inz… no, parlano di Maresca e della finale di Conference. Terza notizia: “Ci colleghiamo con Parigi per bla bla bla”, ah ecco, faranno un servizio sul Psg, Donnarumma, ok, meglio di niente… no, parlano del Roland Garros, Sinner, Alcaraz, Musetti. “E adesso”, adesso? “…linea alla nostra redazione digitale”.

Cioè, niente Champions?

Ok, c’è senz’altro uno squilibrio tra il nostro coinvolgimento emotivo – nostro di noi interisti, intendo – e quello del resto del genere umano, ma da dove si dovrebbe trarre il senso di tutta questa attesa per la partta dell’anno? Per dire: sulla Gazza cartacea, in prima pagina, alla Champions è stato dedicato un titolino a una colonna e un’area pari a occhio a circa il 10%.

Ascolta “Meno tre” su Spreaker.

Cioè, contando che non c’era nemmeno una riga su Sinner (pazzesco!), e contando che il titolo sul Giro d’Italia (organizzato dalla Gazza) era uguale a quello dell’Inter, e constatando che mezza pagina era dedicata ad Allegri (“Il Milan punta Max”, il Milan? quella squadra arrivata tipo centosettesima in campionato? quella?), mi è sgorgato dal petto un interrogativo:

perché nessuno si incula la Champions?

Ho pensato: è tutta invidia. Noi siamo in finale di Champions e gli altri no. Anzi peggio: noi siamo degli habitué della finale di Champions e gli altri no. Ok, lo so, è solo mercoledì. Peraltro, si sono fatte le 18, sto scrollando il sito della Gazza e finalmente trovo grande così in apertura “Il giorno Del Toro, classe e cuore”, evvai, un omaggio al capitano, un incoraggiamento, un segnale di coralità, finalmente, tutti con Lautaro, tutta Italia, tutto il mondo, al di là delle bandiere.

No.

Pensavo fosse un refuso quella D maiuscola. Non è il Toro, ma Del Toro che ha vinto la tappa del Mortirolo e forse anche il Giro, va bene, è giusto così. Scrollo la home page e trovo ciclismo e tennis in quantità. Tracce di Inter qua e là: l’acquisto di Luis Enrique buttato lì tra le dimissioni di Palladino e la pisciata di Zaniolo. Ventesima notizia: Mourinho che è contento che l’Inter non ha rifatto il Triplete, cioè un Triplete senza di lui. Quarantesima notizia: giocheremo in maglia gialla perchè lo hanno voluto i ragazzi, per scaramanzia. Centesima notizia: Cristiano Ronaldo saluta l’Al Nassr (ecco Simone, vedi cosa capita ad andare in Arabia? Centesimo titolo).

Centoventesimo titolo: “Stress quotidiano, 4 alimenti insospettabili che aiutano a combatterlo”

Ooooh! Grazie Gazza, finalmente una cosa interessante. Leggo avidamente. I quattro alimenti sono: avocado (grassi buoni per una mente più leggera); yogurt (intestino sereno, mente rilassata); avena (il cereale amico del buonumore); semi di zucca (piccoli, grandi generatori di relax). E’ quello che fa per me. Sto finendo questo post frullando con il minipimer pezzi di avocado, yogurt magro, semi di zucca e avena. Ne sta uscendo un pastone orribile, ma che assumerò per via orale tra poco. Perchè lo stress, insospettabilmente, si combatte anche così. E andatevene tutti affanculo, casi osservatori esterni dei miei coglioni: quelli in finale di Champions, con l’intestino sereno e la mente rilassata, siamo noi.


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-4. L’altra volta

Due anni fa, la finale di Champions fu una specie di regalo inatteso, fantastico, quasi un po’ eccessivo. Tipo se uno, che due mesi prima avevano trovato mentre si faceva una canna nei cessi della scuola, prendesse 82 alla maturità e il papà gli regalasse la Lamborghini Gallardo. L’Inter, due anni fa, aveva fatto una stagione clamorosamente imperfetta, o meglio, totalmente senza senso: insomma, da neurodeliri. Ve ne ripropongo un frammento, che dice molto, forse tutto.

Tra il 10 marzo e il 19 aprile, 40 giorni giusti giusti, l’altalenante Inter di quella stagione giocò 9 partite (c’era pure una pausa della Nazionale tra i coglioni) di cui tre di Champions (il ritorno con il Porto e i due quarti con il Benfica – 2 pareggi e una vittoria, passando due turni), una di Coppa Italia (l’andata della semifinale con la Juve, un pari a Torino) e 5 di campionato: tenetevi forte, un pari con la Salernitana (!) e 4 sconfitte con Juve (ancora), Fiorentina, Spezia (!) e Monza (!). Recap: 1 vittoria (a Lisbona) in 9 partite, un punto in cinque partite di campionato, una squadra allo sbando eppure con un piede in finale in Coppa Italia e in semifinale di Champions con il Milan (!).

Ascolta “Meno quattro” su Spreaker.

Anche tutti noi tifosotti eravamo allo sbando. Oscillavamo tra #Inzaghiout e il palesarsi di un sogno impudico, quello della finale di Champions per conquistare la quale dovevamo “solo” battere quei saltimbanchi dei nostri cugini. Ci si era materializzata questa incredibile prospettiva in un momento in cui facevamo ca-ca-re in campionato, mentre nelle coppe magicamente si sistemava tutto. Compreso quello sbilanciatissimo tabellone che ci aveva steso un teorico red carpet verso Istanbul con squadre tutte alla nostra portata. Nulla era scontato, per carità, ma urne così favorevoli le abbiamo avute raramente.

A un certo punto, boh, cambia tutto. Dopo il 3-3 con il Benfica a San Siro e prima di Istanbul, abbiamo giocato 12 partite vincendone 11, tra cui la finale di Coppa Italia e i due derby di Champions con quel Milan che supereremo anche in campionato arrivando terzi (dopo Inter-Monza 0-1 eravamo quinti).

Questo fu il finale della stagione 2022/23. Dopo aver sofferto le pene dell’inferno contro Spezia e Monza, trascorremmo qualche settimana di pura spensieratezza, bi-inculando i cugini e pure i gobbi, vincendo, rimontando, sistemando un po’ di cose. Siamo arrivati a Istanbul con il cuore leggero, nella ideale situazione di chi non aveva nulla da perdere. Anzi, di più: anche nella situazione di chi sapeva di essere andato oltre ogni aspettiva e che a quel punto, contro la squadra super-favorita, avrebbe potuto limitarsi a non fare brutta figura per guadagnarsi comunque il plauso generale. Eravamo sereni. La sconfitta era ampiamente in conto. Forse, in un certo senso, avevamo già perso. Sì, ok, c’era il solito fatto della palla rotonda, della partita secca, quelle robe lì. Ma non c’erano troppe illusioni da farsi. Realismo. Tranquillità. Stavamo bene.

Stavolta no.

Ecco, c’ho l’ansia. Vado avanti domani, sennò passo la notte sveglio e mi tocca vedere la semifinale dell’Nba.

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-5. Il mistero del mister

Simone Inzaghi è un allenatore che ha portato la sua squadra due volte in finale nelle ultime tre edizioni di Champions League (la più importante competizione del mondo per club) (no, lo scrivo caso mai un marziano appena arrivato sulla Terra leggesse per caso questo blog sbagliando a cercare YouPorn) e sarebbe innaturale, del tutto innaturale, se continuasse a tenere il profilo basso che tutti gli riconosciamo, e di cui a volte anzi lo rimproveriamo. Ed è normale che si parli del suo futuro nel momento clou della stagione, in questa settimana in cui le sue quotazioni – tecniche, umane e contrattuali – sono altissime. A dirla tutta, è il momento clou dell’intera carriera. Domenica al risveglio potrebbe ritrovarsi quello che è adesso, un normale allenatore top con alto profilo e adeguate ambizioni, oppure ritrovarsi quello che quattro anni fa al suo arrivo a Milano non avrebbe mai osato immaginare di poter diventare, una figura storica a un passo dal livello leggenda.

Ascolta “Fissare la vitamina D” su Spreaker.

Quindi, non è un complotto – spoiler: se c’è una cosa non non sopporto è il complottismo – se su giornali, tv, radio, web e social si parla molto del futuro di Inzaghi e del suo possibile addio all’Inter, proprio alla vigilia della finale di Champions. Direi che è normale. E’ il mercato, per esempio: ci sono società gloriose e/o danarose che (altro spoiler) pensano di cambiare allenatore e tendono a trovarne uno migliore e/o diverso da quello che hanno. Che è il profilo di Inzaghi: per quanto il suo mood pane e salame lo renda ai nostri occhi meno trendy di quello che è, Simone è a livello (se non migliore, appunto) della buona parte dei top allenatori europei, e sicuramente è diverso. Vi rivelo anche il mezzo con cui si è fatto un sacco di pubblicità nelle ultime quattro stagioni e specialmente nelle ultime tre:

l’Inter.

Quanto alla presunta alzata di cresta nella prospettiva di trattare l’addio o il prolungamento con l’Inter, cioè, scusate, cosa dobbiamo ancora pretendere da un allenatore che porta due volte in tre anni la sua squadra alla finale di Champions, più o meno con gli stessi uomini e senza praticamente aver fatto mercato nell’ultima stagione? Non può permettersi di chiedere qualche garanzia in più alla proprietà e alla dirigenza? Allenare l’Inter non è propriamente fare le nozze con i fichi secchi, per carità, però il calcio di Inzaghi merita di essere nutrito di forze fresche, qualche variazione, una ventata di gioventù – cioè di prospettiva. Il tutto fa parte di un discorso che un allenatore può impostare quando finisce una stagione e prima che inizi l’altra. E quindi – al netto di quella follia del mondiale per club – quando potrebbe fare questo discorso Inzaghi se non dall’1 giugno (è domenica), cioè. dal 2 giugno (è festa), e vaffanculo, ok, dal 3 giugno?

E’ tutto normale. In conferenza stampa, oggi, il Demone lo ha candidamente confessato: certo che ho delle offerte, ce le ho sempre (concedete un minimo di vanità professionale a quest’uomo sempre così contenuto); però, scusate, non possiamo parlarne dalla settimana prossima che adesso avrei la finale di Champions?

C’è solo una cosa che mi deluderebbe, nel caso: l’Arabia. Sì, ok, è dura dire di no a una valanga di milioni e alla suite con la tazza del cesso d’oro. Ma è una cosa che posso concepire da uno come Brozo, per dire. Non da un allenatore 50enne in grande ascesa e nel pieno del suo splendore. Cioè, andrebbe a insegnare calcio ai cammelli? Che cosa se ne farebbe l’Al-(nome a caso) del suo calcio? No, veramente, non ce lo vedo proprio scomparire in quel buco nero di gente straricca che esce dai radar forse per sempre. No.

Comunque, Simone, tutto questo è prematuro. Tu sei concentrato, la squadra speriamo altrettanto. E’ tutto intorno che vedo deconcentrazione. Porca puttana, siamo in finale di Champions! Ci staremo mica facendo l’abitudine? Demone, portaci dove tu sai. Poi, con calma, parleremo del resto. A una leggenda – capisci ammè – sarebbe concesso tutto, anche andarsene.

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