Tre punti, punto

Classica partita che devi leggere al contrario, cioè partendo dalla fine. Quindi, partendo dalla fine, per prima cosa devi sentirti dire “E vabbe’, dai, rilassati, hai vinto, che cazzo pretendi?”. Beh, ecco, non è che lo pretenda, ma mi piacerebbe davvero potermi rilassare da un certo punto della partita in poi. Altrimenti mi tocca rispolverare il celeberrimo aforisma di Marcello Marchesi “Siamo nati per soffrire. E ci siamo riusciti” e mi spiace rispolverarlo per un’Inter-Sassuolo piuttosto marginale nel nostro campionato, nella nostra storia e nella stessa specifica e variegatissima storia dei confronti tra Inter e Sassuolo. Una partita che oggettivamente potevamo vincere comodamente e invece abbiamo vinto scomodamente – nel senso che gli ultimi 5 minuti li ho visti in piedi, è vita questa?

Ascolta “Estintori sfavillanti” su Spreaker.

Chivu, nelle interviste post-partita, ci chiede di apprezzare anche questa situazione: che sappiamo soffire e che comunque la partita l’abbiamo portata a casa. Posso anche provare a essere d’accordo con lui, ma – sempre procedendo a ritroso – mi imbatto nelle immagini del gol del Sassuolo e non posso che rimanerne turbato: due minuti e mezzo dopo aver segnato – di culo – il gol del 2-0 e avere sistemato le cose per vivere in serenità gli ultimi 10 minuti di partita, ti fai prendere d’infilata in un modo clamoroso, loro in movimento e noi fermi, una distrazione che poteva costare caro e che non è un buon segno. La leziosità precedente e la statuaria sufficienza di quel momento lì: no, non benissimo.

C’è una sproporzione – procedendo al contrario, incoraggiante – tra quello che produci e quello che realizzi. Incoraggiante nel senso che magari, un giorno, chissà se vicino o lontano, l’alchimia tra la postura dei piedi e il livello di cattiveria funzionerà meglio e vinceremo le partite 3-0 invece di 2-1, che farebbe tutta la differenza del mondo. I difetti dell’Inter si perpetuano nei suoi uomini: lo dicevamo dell’Inter di Inzaghi e lo diciamo dell’Inter di Chivu, che per la gran parte sono infatti gli stessi. Per noi è un 21 settembre che potrebbe essere benissimo un 21 agosto, per il ritardo con cui abbiamo iniziato la preparazione e le tossine che ci portiamo appresso. Ci tocca portare pazienza ma non è facile. Ci tocca persino guardare gli ultimi 5 minuti di un’Inter-Sassuolo in piedi davanti alla tv, e non è facile nemmeno questo. Abbiamo vinto, quindi dovremmo rilassarci. E però no, non è facile nemmeno questo: con questi tre punti passiamo dall’undicesimo al decimo posto, ma si può? Non ci sono più le vittorie di una volta.

Consoliamoci con Pio Esposito. Non solo per quello che è (e quello che speriamo possa diventare), ma perché perlomeno ci fa parlare d’altro. Non siamo sempre lì a fare confronti con Inzaghi, a valutare i difetti di Chivu, a fare la conta dell’età media o di quanto siamo scoppiati. C’è un ragazzo interista che ha vent’anni e fa il centravanti in un certo modo, non banale. Se riuscissimo anche a non mettergli troppa fretta, sarebbe proprio bello.

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Facili e difficili

(Getty Images)

Missione compiuta. Nel suo piccolo, Ajax-Inter era un match delicatissimo: il primo di Champions, che arrivava dopo due sconfitte in campionato, in particolare quattro giorni dopo la partita inconcepibile con la Juve; in più, nel bizzarro calendario di Champions che ci constringe ad affrontare prima le quattro partite facili e poi le quattro difficili, Ajax-Inter era la più difficile delle facili. E quindi, averla vinta vale parecchio in termini di umore e di prospettiva. Niente di indimenticabile, ma molto di utile.

Meno effetti speciali, meno possesso (si è ribaltata la statistica della partita con la Juve, dove con 60-40 ne abbiamo presi 4 e abbiamo perso), più “normalità”, più consapevolezza. Pochi rischi: sul peggiore ci ha pensato Sommer, che intelligentemente Chivu non ha giubilato a furor di popolo (anche se Martinez bisognerà farlo giocare un po’, in serenità). Bene in attacco, dove oggi Thuram vale da solo mezza Inter e dove Pio Esposito ha fatto un partitone tra sportellate e finezze, uno che se non si perde può diventare davvero un pezzo da novanta (milioni). A Lautaro in precarie condizioni si sarebbe potuto risparmiare la Juve e, chissà, poteva anche diversamente. In panca abbiamo due ragazzi che legittimamente possono giocarsele.

Prima della pausa, da qui al 4 ottobre abbiamo altre quattro partite che, onestamente, dobbiamo catalogare tra le facili: Sassuolo, Cagliari, Slavia Praga e Cremonese, tre in casa (dopo la pausa, avremo 4 trasferte su 5 partite). La cosa curiosa è che nessuna delle tre avversarie di campionato – facili, dai – sono dietro di noi in classifica: con il Sassuolo sarà uno scontro diretto tra undicesime, mentre Cagliari e (nettamente) Cremonese ci precedono. Sarà una prova al contrario: più che un ciclo di ferro è un ciclo di burro, ma non potendo più sbagliare colpi avrà il suo perché.

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Non cambi mai

Il tema del non-rinnovamento dell’Inter è piuttosto interessante. Che sia un grosso problema Chivu l’ha già detto (“difficile far cambiare abitudini a giocatori che fanno le stesse cose da quattro anni”). Peraltro, con questa dichiarazione, Chivu dice esplicitamente che vorrebbe cambiare qualcosa. Ma Chivu ci sta provando a rinnovare?

Finora, nelle tre giornate di campionato, ha sempre schierato dall’inizio sette giocatori: Sommer, Acerbi, Bastoni, Dumfries, Barella, Lautaro e Thuram. Ha sempre cambiato il difensore centrale di destra: Pavard, Bisseck, Akanji. A sinistra ha fatto giocare dall’inizio due volte Dimarco e una volta Carlos. A centrocampo, in una rotazione determinata per un terzo da una squalifica (cioè da causa di forza maggiore), hanno due presenze dall’inizio Calhanoglu, Miky e Sucic. Quindi, sui 33 giocatori schierati nella formazione iniziale (11 x 3), 30 sono vecchi. Gli altri sono Akanji (sostituto “diretto” di Pavard appena ceduto, una presenza obbligata) e Sucic (2). L’unica ventata di nuovo in queste tre prime giornate è stata dunque rappresentata da Sucic: bene contro il Toro, male contro l’Udinese (sostituito al 62′) e subentrato (per 11′) con la Juve.

Ascolta “Un cantiere aperto” su Spreaker.

Il resto?

Bonny (un gol al Toro) è subentrato dalla panchina tutte e tre le volte (totale 64 minuti), come Zielinski. Pio Esposito (27′), Diouf (11′) e Luis Henrique (4′) li abbiamo intravisti una volta sola (come Darmian). Quindi, ‘sti nuovi, boh? Saranno buoni, non lo saranno? Non lo sappiamo. Oggettivamente, non li sta usando. Anche Bonny è un cambio obbligato (vuoi non far rifiatare almeno una delle due punte?). E comunque, resta un cambio.

Poi c’è Frattesi.

Frattesi zero minuti. E’ vivo e vegeto (ha giocato tipo 25′ in Nazionale) (anche Pio ha giocato in Nazionale), ma inutilizzato. Frattesi, parlando di rinnovamento dell’Inter, non è una figura marginale. Inzaghi, nel ritenerlo esterno al suo progetto talebano del 3-5-2, lo ha usato come guastatore di lusso. Via Zalewski, è rimasto l’unico uomo in rosa che può scompaginare le cose. E’ un incursore nato, ha il mal di pancia latente ma sfruttando i ritagli ha segnato per noi gol importantissimi e tolto un tot di volte la castagne dal fuoco. Nel suo essere vecchio, nel senso di reduce inzaghiano (con i suoi quasi 26 anni è in realtà uno dei più giovani), potrebbe essere la grande novità. Invece, zero minuti.

Quando sono entrati Zielinski e Darmiam, avevamo in campo 6 over 30. La Juve ha vinto la partita con un 2006.

Allora, cosa sta facendo in realtà Chivu? Voglio pensare, intanto, che stia prendendo tempo in attesa che tutti arrivino a una forma decente, nelle more dell’allucinante stagione scorsa e di una preparazione iniziata 15-20 giorni dopo gli altri. Quindi – ipotizzo – si affida a una macchina rodata in attesa di cambiare qualche pezzo e qualche assetto senza buttare nessuno allo sbaraglio. La partita di Torino dimostra che la squadra c’è (non faresti il 60% di possesso e tre gol al Latta stadium sennò) ma non c’è (non faresti il 60% di possesso per prendere 4 gol in 4 tiri sennò). La forma fisica crescerà. Ma la forma, quella sostanziale, quella filosofico-tattica, quando la vedremo? Perchè, diciamolo, in questo momento noi tifosotti siamo sospesi sul baratro: i vecchi invecchiano, la difesa è perforabile, il gruppo si sgruppa, i giovani sembrano lì per caso (e Chivu boh?, voleva proprio quelli?), alla terza giornata siamo a 6 punti da Napoli e Juve…

Prendete me, per esempio. Dopo tutto ‘sto pippone mi viene solo da dire (in coerenza con il mio essere più intimo) che sì, cioè no, ecco, non ci sto capendo un cazzo. Che in fondo è il suo bello: se tutto mi fosse chiaro, magari non sarei nemmeno qui ma in un forum di vecchi tromboni o alla proiezione di un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco.


(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #145, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Beh, direi che gli argomenti non mancano. Riassumibili nel sempre avvincente e gradevole assunto che moriremo tutti)

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Rido (la gente non capisce)

Che cazzo ridi?

La foto è fortemente simbolica. Di un certo scollamento dalla realtà, intendo. Un giocatore dell’Inter che sghignazza con il fratello juventino dopo averne preso quattro a Torino (uno dal fratello, tra l’altro, che potrebbe sghignazzare, lui sì, ma sghignazza meno), un giocatore dell’Inter che trova non sufficientemente luttuosa la circostanza di una sanguinosa sconfitta con la Juve, vabbe’, è un uomo che – al di là del Mulino Bianco che c’è in tutti noi – dovrebbe farsi un paio di domande. E spero che qualcuno in società un paio di domande gliene faccia. Una gliela suggerisco io: che cazzo ridi?

Detto questo, parlando di scollamento della realtà arriverei a Chivu. “Abbiamo fatto una grande prestazione in entrambi i tempi, però bisogna capire certi momenti. Siamo venuti qui a fare la partita, a cercare di vincere, ci è mancata sicuramente un po’ di lucidità. Specialmente negli ultimi dieci minuti.  Mi interessa capire i momenti della partita, non gli atteggiamenti perché oggi la squadra li ha avuti giusti. Nel secondo tempo c’è stato uno stra-dominio, poi non abbiamo saputo gestire”. Si può stradominare e non vincere? Si può stradominare e prenderne quattro? Si può stradominare, condurre 3-2 a Torino a 11′ dalla fine e poi perdere?

Sì, altroché! risponderebbe Thuram coprendosi la bocca ma sghignazzando.

E ancora. Si può considerare stradominata una partita in cui gli avversari ti fanno quattro gol con quattro tiri in porta? E se consideriamo il clamoroso salvataggio di Carlos su un tiro a colpo sicurissimo, si può considerare stradominata una partita in cui ne hai presi quattro, quasi cinque?

Che l’Inter non meritasse affatto di perdere, figuriamoci, l’ha detto pure Tudor. Che l’Inter abbia disputato una buona partita, a tratti ottima, considerando che stavamo giocando al Latta Stadium con la Juve, lo dico pure io che ho i coglioni girati. Però sul concetto di stradominio ci andrei con i piedi di piombo. Per essere degli stradominatori, ecco, siamo un po’ fragilini. Se per stradominare devi segnarne almeno cinque, forse abbiamo un problema.

Al 13 settembre siamo ancora lontani da una forma collettiva accettabile (qualcuno viaggia, qualcun altro batte in testa) e questo si poteva prevedere. Abbiamo provato ad autoconvincerci che proprio la differenza fisica fosse stata la causa prima – forse l’unica – della sconfitta con l’Udinese. Ok, ma con la Juve? Vai sotto, rimonti due volte, passi davanti e la perdi. Ne segni tre, e non bastano. Tre gol in casa della Juve, diamine: non capita spesso. Ne prendi quattro, tutti evitabili, almeno due parecchio scoccianti. Forse, stradominando ci siamo distratti. E’ un tipico difetto degli stradominatori.

La nostra difesa ha preso sei gol in due partite, cinque su azione. Le avversarie capitalizzano le occasioni con una percentuale spaventosamente alta. La difesa è il reparto che più richiedeva interventi strutturali e su cui invece non è stato fatto niente (lo scambio Pavard-Akanji non lo considero, non cambia granchè soprattutto in prospettiva). I due giocatori della Juve che hanno segnato i gol del 2-1 e del 4-3 sono rispettivamente del 2005 e del 2006 (e il piccolo Thuram è del 2000). Potrebbero essere i figli di Acerbi, Darmian e Sommer – sapete, quegli errori di gioventù, stai facendo i compiti e metti incinta una. Tutto questo dà da pensare. E non sono pensieri leggeri.

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Quelli che siamo – Reloaded

Parliamone serenamente, senza disfattismi nè discese dal carro. Due partite di agosto valgono quel che valgono (in scala da 0 a 10, forse 1), ne mancano altre 36, nessuna squadra sta facendo niente di speciale, a parte avere culo (e noi ieri proprio non ne abbiamo avuto: in scala da 0 a 10, direi 0). Però parliamone.

La frasi di Chivu in conferenza stampa a San Siro dopo la sconfitta con l’Udinese – bisogna specchiarsi meno e giocare più in verticale, i ragazzi vengono da anni di abitudini che non si cancellano in una settimana, la responsabilità è mia ma bisogna trovare qualche stimolo in più, devo realizzare le mie idee con quelli che ho perché altre soluzioni non ce ne sono – colpiscono parecchio. Un po’ troppo presto, per un allenatore, essere così frustrati. Per un allenatore nuovo, poi. Ma Chivu è un allenatore nuovo molto sui generis: in realtà è all’Inter da tre mesi, protagonista di un cambio della guardia inedito nella nostra storia, ed è interista da un pezzo. Quindi sa di cosa parla. Passata la fase di brutale adattamento – arrivare sostanzialmente da ripiego a gestire un Mondiale per club al termine di una stagione massacrante conclusa con uno 0-5 in finale di Champions – adesso per lui è iniziato il lavoro vero. E il lavoro vero non dev’essere rose e fiori.

Intanto, diamoci tutti una sana svegliata. Ci siamo resi conto in questi 15 mesi della differenza tra l’avere come proprietario un Moratti/Pellegrini, uno sceicco o un fondo? Il fondo ci ha illusi facendo finta di avere un cuore, mettendo Marotta sulla poltrona di presidente invece di un John Smith qualunque. Ma è un fondo. Fa gli affari suoi, cercando di fare quadrare i conti con parametri che non sono i nostri da tifosotti. L’anno scorso ha fatto un mercato totally fake (ma inebriati com’eravamo non ce ne siamo accorti) e quest’anno ha fatto un mercato quasi fake, svecchiando la panca ma non acquistando un titolare che è uno (possiamo sperare che lo diventi Sucic, ma con calma).

Devo realizzare le mie idee con quelli che ho perché altre soluzioni non ce ne sono, ragazzi, è una frase che pesa come un macigno sui nostri sogni da persone limitate nel cervello, gente che vorrebbe sempre vincere scudetti e coppe, battere la Juve e il Milan, quelle robe lì. Quelli che ha sono dei signori giocatori che giocano un certo tipo di calcio da un tot di anni, e lui vorrebbe fare altro. Ma altro cosa? Gli hanno comprato cinque ragazzi e il resto sono quelli di prima.

A proposito. Siamo soliti sentire dire che l’Inter si è rinnovata poco e la squadra titolare ha un anno in più. Ma la faccenda è un po’ più complessa, nell’ottica di Chivu e del minimo rinnovamento che gli piacerebbe apportare. Dumfries, De Vrij, Lautaro, Çalhanoğlu, Barella, Dimarco, Darmian e Bastoni (totale: 8) sono i reduci della prima stagione di Inzaghi, cui possiamo aggiungere gli ultratrentenni Acerbi e Mkhitaryan arrivati l’estate successiva (totale: 10). Questa squadra non ha un anno in più, ma quattro.

Al di là della carta d’identità – perché i nostri vecchietti hanno fatto cose mirabolanti e inscalfibili nelle nostre menti bacate – pretendere un rinnovamento in queste condizioni è piuttosto temerario. Con un allenatore nuovo, e una squadra oggettivamente consunta dopo quattro stagioni inzaghiane in cui tutti si sono spremuti come limoni, forse si doveva osare un po’ di più. Inter-Udinese fa testo fino a un certo punto: la partita del 31 agosto di una squadra reduce da un’estate del tutto anomala e da una preparazione molto breve rispetto a 18 avversarie su 19, ecco, conta quel che conta. Soprattutto se dall’altra parte c’è una squadra fisica e cazzuta con nulla da perdere e tutto da guadagnare. Ok, ma a lungo termine? O anche a breve termine, dal 13 settembre, quando la stagione inizierà davvero e avremo la Juve e poi la Champions?

A me ha disturbato parecchio vedere il turco in condizioni (anche motivazionali?) molto precarie, il bisteccone fatuo come l’avevamo lasciato, vedere sprecare metà dei cross e dei corner come se non ne avessimo tirato uno negli ultimi sei mesi, incaponirsi in iniziative sbagliate. Poi mi ha disturbato ripensare al mercato, mettendo le cose in fila.

Bene il mercato d’uscita, fino a Zalewski: decisione incomprensibile, ma poi realizzi che siamo di proprietà di un fondo e allora la capisci – non hai venduto Yamal ma comunque l’unico giocatore in grado di sparigliare le cose, però era una plusvalenza che camminava e quindi zitti. Il mercato in entrata, boh? Bene (concettualmente) Sucic e Bonny, Pio era già tuo, Luis e Diouf sono due scommesse con poco senso tecnico, almeno allo stato delle cose – ma poi realizzi che siamo di proprietà di un fondo che dice di voler puntare sui giovani, magari un po’ a caso. Un mese ad assistere alla penosa trattativa Lookman, mentre i possibili colpi (da Leoni fino a Solet, cazzo) sfumavano uno a uno. Dovevamo prendere un difensore, non l’abbiamo preso. Non sarebbe stato male prendere un altro attaccante, non l’abbiamo preso. Potevamo benissimo non prendere un altro centrocampista, l’abbiamo preso. Va bene, certo. Diciamo che non va benissimo.

E Chivu? Con quella modalità da sergente dell’Est, ci ha messo la faccia in modo fragoroso. Che può anche andar bene, per carità. Certo, il 31 agosto è dannatamente prematuro anche solo accennare a questione così spinose e in totale evoluzione. Sperando che sia un vigoroso tentativo di creare un po’ di pathos positivo nella truppa, e non il gesto un po’ disperato di uno condannato a lottare duro per restare tra gli eletti sapendo che sarà il primo a cui scaricheranno tutte le colpe, comprese le molte non sue.

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Quelli che siamo

Il campionato d’agosto è già finito con un bilancio un po’ così, perché tre punti in due partite in casa è un bilancio un po’ così. Tecnicamente, il dato – molto parziale – è questo: siamo implacabili con squadre che fanno cagare, lo siamo un po’ meno con squadre fisiche che se la giocano. Siamo sfortunati (il fuorigioco di Thuram e il rigore di Dumfries sono roba di millimetri), ma ci mettiamo molto del nostro: al quarto angolo tirato alla cazzo (sembrava l’Inter di Mazzarri) ho avuto l’insano pensiero di disdire Dazn, Sky, Prime ma anche l’Enel, per non ricadere in tentazione di accendere i device. I sorrisi di Inter-Torino si sono trasformati nei bronci di Inter-Udinese. In sei giorni. E io che maledicevo l’assurda pausa delle nazionali dopo due giornate adesso sono qui che guardo il soffitto e dico: meno male che adesso c’è la pausa. Sono anch’io un po’ in confusione, come l’Inter.

Il campionato d’agosto ha i suoi rischi, tipo trovare l’Udinese e non venirne a capo. Il massimo che potevamo fare, senza farci troppe domande, era vincere le due partite (come hanno fatto Napoli, Juve, Roma e rumore di tuoni Cremonese) (noi oltretutto le avevamo entrambe in casa) e invece no. Vinci 5-0 con il Torino e ti sembra che sia già tutto a posto. Perdi 1-2 con l’Udinese e ti sembra che ci manchi questo, quello e quell’altro. Vinci 5-0 con il Torino e ti sembra che la squadra sia già in grande spolvero. Perdi 1-2 con l’Udinese e ti sembra che la squadra stia già arrancando, pagando subito il pegno a una preparazione che – nel caso stasera – sarà stata minimo 15 giorni più breve di quella degli avversari.

Avendo rinviato il momento delle disdette, mi sono indivanato nell’attesa di Chivu. Che ha detto, con chiarezza, una cosa dirompente: questa squadra è abituata a giocare in un modo che non è quello che voglio io, è dura far cambiare le abitudini di quattro anni. E quindi? Ora che succede? Finisce il mercato e abbiamo pochi difensori, pochi attaccanti (stasera hanno giocato tutti e quattro insieme) e molti centrocampisti. “Con quelli che siamo”, ha sottolineato Chivu. La leziosità gli sta sui maroni, il gioco non è proprio quello che vuole lui, e lo deve inseguire “con quelli che siamo”. E io che anelavo alla tranquillità dell’animo. Forse era meglio che mi guardavo Squid Game.

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Sorrisi e calcioni

Ho spento l’Inter a inizio giugno dopo la prima conferenza stampa di Chivu e l’ho riaccesa ieri sera: due mesi e mezzo di detox, giusto qualche articolo letto molto distrattamente e qualche raro highlights. Non ho visto i mondiali, non ho visto le amichevoli, non ho visto niente. Al terzo pezzo su Lookman (il terzo di boh, duecento?) ho adottato la mia personale strategia di autodifesa cerebrale:

“No, il tormentone no! Andatevene tutti a ca-ca-re nel tratto stradale Appiano-Milano-Bergamo, Bre-Be-Mi compresa, chiamatemi quando lo avete preso, oppure chiamatemi quando siete sicuri di non poterlo prendere, ciaone”.

Infatti, non si è sentito nessuno. E questo investe un’altra questione sempre più insopportabile, le prime due (a volte anche tre) giornate di campionato a mercato ancora aperto, roba inconcepibile in un mondo civile, che accoppiata al caldo d’agosto ammanta di virtualità il ritorno al calcio ufficiale. Per non parlare della pausa per le Nazionali di inizio settembre, che un calcio nei coglioni sarebbe una pratica più piacevole. Il campionato inizierà il 13 settembre, e il fatto che inizi con Juve-Inter sarà contemporaneamente assurdo e necessario – assurdo per questa partita già alla terza giornata, necessario per passare alla modalità “adesso non si scherza più”.

Oh, detto tutto ciò.

Se c’era un modo per farmi dimenticare il drammatico finale della scorsa stagione e quella grottesca appendice oltreoceano, era esattamente questo: una partita vinta bene e – soprattutto – con il sorriso. Le due cose generalmente combaciano, ma non era così scontato in uno spogliatoio dove poco più di un mese e mezzo volavano gli stracci e noi poveri tifosotti ondeggiavamo tra il “moriremo tutti” e il “se ne andassero affanculo tutti”, una posizione disfattista e orgogliosa nel contempo, figlia di un finale di stagione che ci ha centrifugati come poche volte è accaduto nella nostra pur centrifugata storia.

Non ne abbiamo fatti cinque al Psg, purtroppo. Li abbiamo fatti a un Toro assai farlocco. Però li abbiamo fatti. Non ne abbiamo presi. E abbiamo sorriso, tutti. Thuram non sorrideva così tipo da otto-nove mesi. Anche Bastoni, con quel capello incolto, era bello disteso. E il gol di Lautaro, una rapina di alta qualità, è forse il momento simbolo della serata: perché se sul 2-0 contro un avversario già al tappeto hai quella fame lì (gettarsi a corpo morto), e ti sfami con quel piedino fatato lì (un tocco magico mentri scivoli, che schiccheria), significa che quantomeno siamo partiti col piede giusto.

Una partita al 25 di agosto conta quel che conta, fino al 13 settembre ci tocca ‘sta sbobba. Però, accidenti, bene così. Sucic e Bonny sono una bella iniezione di forza e di qualità. Aspettiamo Chivu ai prossimi test, step by step. Forza Inter.

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Temevo de morì prima

Adesso cosa rimane da vedere? Forse un oro della nazionale di basket alle Olimpiadi (livello di impossibilità: over the top). Forse un italiano che vince il mondiale di F1 sulla Ferrari settanta e passa anni dopo Ascari. L’Inter (vabbe’, si può sempre replicare, eh?) e la Nazionale: siamo a posto. L’atletica – 100 e 200 metri, la maratona, l’alto – pure (vabbe’, se capita altro è tutto ben accetto, eh?). Un tennista italiano che vince a Wimbledon è una roba epocale: temevo che la foto qui sopra la potesse fare solo l’intelligenza artificiale. O, addirittura, temevo de morì prima.

Trattandosi di uno come Sinner, certo, si poteva mettere in conto che prima o poi potesse accadere. E negli ultimi quattro anni abbiamo anche avuto un altro finalista, Berrettini (contro il più inarrivabile degli avversari, Djokovic), e un altro semifinalista, Musetti (contro il più inarrivabile degli avversari, Djokovic), in un torneo che per gli italiani è sempre stato una chimera. Insomma, il momento sembrava avvicinarsi. Ma, appunto, non era mai successo.

Io fino a ieri sera soffrivo ancora della sindrome di Pat Du Prè. E’ il 1979, sono al mare ad Arma di Taggia (dove Fognini sarebbe nato 8 anni dopo), e sulla Rai trasmettono la diretta di Panatta-Du Prè, quarti di finale di Wimbledon. Panatta non era neppure testa di serie. Al primo turno batte lo spagnolo Gimenez, uno che forse schifava più di lui l’erba. Al secondo turno batte al quinto uno sconosciuto inglese, Smith, una wild card con cui stava sotto di due set a uno e 5-5 al quarto. Al terzo turno batte con tre tie break Bengston, il compagno di doppio di Borg, un cristone che sa fare solo serve and volley. Al quarto turno Panatta, cazzo, prende a pallate Sandy Mayer. E va ai quarti con ‘sto Du Prè, statunitense nato in Belgio, buon giocatore ma niente più, che vincerà un solo torneo in carriera, a Hong Kong, mica a Flushing Meadows. La partita inizia a metà pomeriggio, io faccio un bagno, saluto gli amici e dico: vado a casa a vedere Panatta-Du Prè. Panatta sembra in giornata più che discreta, ha davanti a sè un’occasione d’oro, nella sua parte del tabellone sono già caduti McEnroe e Gerulaitis (che ha perso al primo turno proprio con Du Prè). E’ avanti due set a uno, poi nel quarto paga sanguinosamente un paio di leggerezze e l’altro ne approfitta. Si va al quinto, quando accade una cosa inaccettabile:

“Linea al Tg2”.

Porca troia, sono già le otto meno un quarto? Mi accascio disperato davanti al televisore. Non c’erano mica le app, non c’era mica internet. Non c’era un cazzo di niente. Mi metto a tavola in stato catatonico. Quando arriva il momento delle notizie sportive, dicono che Panatta ha perso al quinto.

Ecco, io ero rimasto là, al 1979, a Panatta-Duprè, partita simbolo dell’incontrovertibile fatto che un italiano non avrebbe mai vinto Wimbledon (per inciso, se Panatta avesse battuto Duprè avrebbe trovato in semifinale Roscoe Tanner, quel tizio biondo con la permanente che tirava mine spaventose di servizio, e in finale Borg, che con Tanner vinse il quarto dei suoi cinque Wimbledon di fila. Borg era stafavoritissimo, ovvio, ma Panatta era il giocatore che Borg soffriva di più nell’intero universo). E quindi che Sinner abbia vinto Wimbledon per me personalmente è un fatto liberatorio. E poi sono molto contento per Sinner. “Ma scusa, proprio tu che hai scritto bla bla bla contro Sinner?” No, aspetta: io ho sempre fatto il tifo per Sinner, solo che avevo molta paura per lui. Molta paura che tutte le enormi aspettative e tutto l’enorme carrozzone che gli hanno creato attorno (mega sponsor, mega team ecc. ecc.) finissero per giocargli contro, per fargli perdere il senso della realtà. Ero contro il sinnerismo, mica contro Sinner. Il fatto che lui mi abbia smentito due volte – è davvero il campione che tutti pronosticavano, è impermeabile a tutto – non può che rendermi felice.

C’era poi una questione tecnica che mi attizzava, e che continuerà ad attizzarmi. Per me Alcaraz, che è pure due anni più giovane, ha più talento di Sinner. Questo non vuol dire molto: non è detto che chi ha più talento sia il più forte, anzi. E poi il talento che intendo io nel tennis – il tocco, il braccio, una certa sensibilità, una certa visione, una certa locura anche – è roba un po’ di nicchia. Tutto questo per dire che fino a un mese e mezzo fa lo schema mi sembrava chiaro: Sinner più testa, Alcaraz più talento; Sinner superiore sul veloce, Alcaraz sulla terra e sull’erba (che non a caso sono le due superfici dove serve più talento). E invece Sinner ha perso il Roland Garros al quinto dopo aver avuto tre match point, e poi ha vinto Wimbledon. Questa cosa frantuma i miei schemi, e forse anche quelli di Alcaraz: Sinner è il più forte, punto, per fare meglio di lui bisognerà (sempre) fare meglio di lui. C’è stato un momento, ieri, in cui si è colta quella frase in spagnolo tra Alcaraz e Ferrero (del tipo “tira sempre più forte di me, che cazzo faccio?”), che mi ha fatto volere tantissimo bene a entrambi: sono giovani, bravi, positivi, fortissimi, sportivissimi. E’ una gioia per questo sport. Godiamocela, giodiamoceli.

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Stelle, muscoli e like (e merda)

A noi, adesso è chiaro, ci ha rovinato la seconda stella. E’ stata, la stagione 2023/24, talmente esaltante da averci sballato tutti i parametri. Avremmo tranquillamente potuto considerarla irripetibile, e invece no. Siccome siamo esseri umani, flesh & blood, con l’aggravante di essere tifosi – cioè, subumani – abbiamo sognato per i 10 mesi della stagione successiva che avremmo potuto fare meglio (meglio di una stagione irripetibile, capito?). No, aspetta, cerco di essere più preciso: che avremmo potuto fare MOLTO meglio, addirittura il massimo, vincere tutto. Alla stessa data in cui l’anno prima avevamo vinto il super-scudo a San Siro chez Milan, eravamo in effetti ancora in corsa per vincere tutto ( e dovevamo ancora giocare con il Barcellona, il top del top). Abbiamo sperato di fare MOLTO meglio della stagione precedente – quasi perfetta – con la metà dei giocatori che ha reso MOLTO meno, un’equazione impossibile se non fosse per quell’elemento immateriale che ti fa giocare quattro partite mostruose con Bayern e Barcellona. Ma l’elemento immateriale non è gestibile nè programmabile. Se hai 38 anni e hai i muscoli consunti ma hai il talento di Fognini, puoi giocartela per 4 ore sul centrale di Wimbledon con Alcaraz sembrando suo coetaneo e facendogli prendere un enorme spavento. E’ successo anche a noi in Champions. Siamo quelli del 4-3 al Barça e, sempre noi, gli stessi, quelli che si fanno rimontare due gol dal Parma. Anche Fogna sa che se domani, dopo l’incanto di Wimbledon, gioca un Challenger a Vimodrone perde con il numero 5 del Burkina Faso, perchè l’elemento immateriale non lo comandi a bacchetta, il cervello va in estasi o va in pappa che tu lo voglia o no, le motivazioni non sono mai le stesse.

A un certo punto la nostra grande illusione è franata – il disastroso derby di coppetta, lo scudo regalato al Napoli, la devastante finale di Monaco – e dopo tutta questa apocalisse, invece di spurgare urgentemente le sinapsi e i flessori a Formentera, ti tocca fare le valigie e andare a giocare in America alle tre del pomeriggio in una manifestazione molto fake ma molto remunerativa ma molto inutile ma molto essenziale per il tuo club. Dopo 10 mesi di sogni esagerati e dissolti, ti tocca allungare la stagione di un altro mese. Ancora a giocare a pallone. Ancora con le stesse facce attorno, più tirate, meno sorridenti.

Ecco qui, ambientata, la crisi dello spogliatoio Inter. Sembriamo una di quelle comitive che partono per una vacanza di un mese in caicco, figata!, too much!, facciamo una foto!, ciao poveri!, e poi dopo tre settimane reclusi su una barca covano solo pensieri omicidiari/suicidari e si mandano affanculo se uno lascia le infradito a poppa. La stagione dei sogni ha lasciato troppe scorie perché potesse finire in gloria al mondiale o con una bella pizzata a Cardano al Campo prima di sciogliere le righe al ritorno da Charlotte. Ci ha rovinati la seconda stella. C’era una squadra che andava a cento all’ora, perché tutti andavano a cento all’ora – un modello di perfezione sincrona. Quest’anno, invece, c’era una squadra che andava a sessanta all’ora perché quelli che andavano a ottanta o novanta dovevano trainare quelli che andavano a venti o trenta, e qualche volta erano fermi. Poi, siccome siamo comunque dei Fognini, abbiamo giocato con Alcaraz e Sinner e gli abbiamo fatto fare il tergicristallo davanti al mondo intero. Ma abbiamo perso al quinto con Cerundolo o con Munar, e il 31 maggio 6-0 6-0 con Draper.

Se Calhanoglu e Thuram da uomini della Provvidenza sono diventati problemi conclamati, un motivo ci sarà. Se Lautaro con i suoi partner d’attacco passa sempre dalla modalità “Brokeback Mountain” alla modalità “A letto col nemico”, un motivo ci sarà. Se la macchina perfetta dello spogliatoio Inter adesso sembra la macchina di Stanlio e Ollio quando dicono “Arrivedoooorci!”, un motivo ci sarà. Motivi su cui debbono indagare Marotta e Chivu, il cui teorema dalla merda da masticare si staglia ora come una nube sul nostro prossimo futuro. Al rito della merda – la squadra seduta a gambe incrociate intorno a un falò alla Pinetina – sono invitati tutti, visto che la merda abbonda come la carne alle grigliate di Correa. Adesso che finalmente siamo andati in vacanza e che i più stanchi non toccheranno il pallone per un mese, la speranza è che ci si chiarisca tutti le idee e, nel caso, si volti pagina da buoni amici (oppure addio, senza rancore, è il calcio, è la vita). Vedere quattro miliardari che si mettono like a orologeria come certe quindicenni che si contendono er mejo fico der bigonzo, è uno spettacolo divertente fino a un certo punto. Preferivo Fognini-Alcaraz, che sai come andrà a finire ma ti godi la meraviglia e sogni, sogni, sogni oltre l’irragionevole. Sì, certo, esattamente come l’Inter 2024/25. Siamo o non siamo (sub)umani?

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Mondiale di merda

Nell’ora in cui anche il più scrauso dei tg ti dice che è meglio non uscire di casa sennò muori sul colpo e che bisogna bere molta acqua e mangiare molta frutta sennò comunque muori nel giro di qualche giorno (spoiler: moriremo tutti), ieri l’Inter ha giocato per due ore a calcio. In nessun Paese civilizzato avrebbero organizzato una partita ufficiale alle tre del pomeriggio del mese di giugno, ma in un Mondiale per club sì, si fa, è normale, e vi spoilero un’altra cosa che sicuramente nemmeno vi immaginate (scherzo, dai): che si farà anche esattamente tra un anno al Mondiale per nazioni, il Mondiale vero, che durerà 10 giorni più del solito perchè ci saranno 16 (sedici) squadre più del solito e 472 partite più del solito, di cui 380 inutili, e inizierà con una bella partita inaugurale all’Atzeca (2.200 metri di altitudine) alle due del pomeriggio di metà giugno e finirà con una bella finale a New York (latitudine di Napoli) alle due del pomeriggio di metà luglio.

Siccome non me l’ha ordinato il dottore (che tuttalpiù potrebbe ordinarmi di bere acqua e mangiare frutta, “scusi, posso alzarmi alle 3 per vedere una partita?”, “a suo rischio e pericolo”, “tipo che muoio?”, “è possibile”), ho saltato a piè pari ‘sta robaccia del Mondiale per club nonostante ci giocasse la mia squadra del cuore: delle quattro partite ho visto gli highlights e, ieri sera, il secondo tempo (quanti ricordi, “trasmettiamo il secondo tempo della partita…”) non perchè io avessi la nausea da Inter, non sia mai, ma perché l’Inter aveva la nausea da calcio e la nausea è come lo starnuto, vedi uno che ha la nausea e viene la nausea anche a te, e si fa a gara a chi vomita prima.

Ok, ora parliamo della merda.

Quello che ci lascia di importante questo mondiale è la merda. L’ormai celebre Teorema della merda dell’allenatore e pensatore rumeno Christian Eugen Chivu, e la carriolata di merda rovesciata ieri sera poco prima della mezzanotte ora italiana dal giocatore e pensatore argentino Lautaro Javier Martinez.

E’ importante tutta questa merda perché, nell’inedito e spaventoso rito di passaggio tra una stagione e l’altra (l’anti-Triplete, cinque pere in finale di Champions, il tuo allenatore che scappa col cammello, il nuovo che è una clamorosa scommessa, un mese in più di stagione senza più forze nè motivazioni mentre tutti i tuoi avversari – tranne la Juve – sono alle Maldive a riderti dietro), almeno un qualcosa – cioè, questa merda – ce la portiamo concettualmente appresso e costituisce il fondamento morale della prossima stagione (che abbiamo rischiato fosse indistiguibile dalla prima, metti che fossimo andati in finale, invece per fortuna continuiamo a prendere pali che è una bellezza, viva i pali santiddio).

L’obbrobriosa metafora chivuiana della merda da masticare bene (semplicemente mangiarla non rendeva l’idea) è stata utile per far capire che – se a qualcuno non fosse stato chiaro – questo club e questo gruppo non devono riposarsi sugli allori (no, in effetti non ci sono allori) nè sulle recenti potenzialità mostrare al mondo, per quanto poi inutili (le quattro partite con Bayern e Barcellona). Si riparte da zero (del resto, zero sono i tituli dell’ultima stagione) e mangiando merda come fossero bastoncini di liquirizia, gnam gnam, masticando bene, slurp.

Più interessante ancora la merda di Lautaro, rovesciata con una ruspa dalla mixed zone su tutti noi. Un capitano vero che non si pone il problema di essere sgradevole, bene così. Insomma, il gruppo – il gruppo! che gruppo! che meraviglioso gruppo! (respiro affannoso, urletto, orgasmo) – non è così gruppo? Non lo è stato durante gli ultimi mesi? Non lo è ora? C’è il fondato timore che non lo sarà nell’immediato futuro? Non tutti ce la mettono tutta (anche se rimane ben poco da metterci)? C’è qualcuno che vuole andare? E’ il turco, come sembra chiaro? Ce ne sono altri? Ora che finalmente ci sarà un po’ di vacanza – troppo poca, comunque – è giusto che il club si chiarisca le idee e faccia pulizia nelle stanze dove si annida un po’ di sporco, perché di tossine ne abbiamo fin troppe da smaltire, ci mancano solo quelle relazionali. Il Demone se n’è andato dopo una stagione apocalittica e nella prospettiva di diventare l’allenatore più pagato al mondo, anche se con la sabbia del deserto nelle mutande: ha fatto bene. Se anche altri nutrissero diversi desideri e diverse prospettive, dopo aver dato quello che hanno dato e dopo averci portato dove ci hanno portato, ne hanno facoltà: nessuno è eterno, senza alcun rancore. Ci serve freschezza, più che altro. Il più possibile qualitativa. Ma freschezza, tanta.

Ora mettiamoci qui con i pop corn (“si ricordi acqua, frutta e verdura”, “sì, certo, era una metafora”), riposiamoci, assistiamo agli eventi. Con serenità. Forza Inter.


(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #141, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Vabbe’, poi si finisce sempre a parlare di Inter, lo so)

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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