La supremazia dei miei coglioni

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Diciamo che poche cose fanno più incazzare di un gol preso al 94′ su calcio d’angolo. La partita è finita, è l’ultimo pallone che pioverà verso la tua area e la missione è andarci in undici e prenderlo, uno su undici, santa madonna, uno su undici ce la farà! E invece no, la prendono due (due!) del Toro e la palla va dentro. Ecco, a prescindere da tutto questo – calci in culo! -, non è che se fosse finita 0-0 sarei qui a cantare il peana. No, dico, che partita di merda abbiamo mai fatto? Il Mancio è soddisfatto dell’iniziativa, della supremazia territoriale eccetera eccetera. Quindi, ecco, aggiungetemi un bell’asterisco alla classifica: punti 26*
*(bravi nella supremazia territoriale)
Era stata una partita incubo. E’ un incubo che, parlando di sonno, ogni tanto mi capita: nel sogno, cerco di fare qualcosa (o entrare o uscire da un posto, o cercare qualcuno) e non ci riesco. Dopo un tot di tentativi, mi sveglio tutto sudato e con i coglioni girati. Ecco, Inter-Toro è stata la stessa cosa: abbiamo cercato insistentemente di – non dico fare gol – tirare in porta, e non ce l’abbiamo mai fatta. Finiva 0-0, bleah, però se tiri 15 volte e prendi un palo, sbagli il giusto e il portiere fa i miracoli, ecco, nessuno avrebbe da dire nulla. Ma se tutta ‘sta supremazia si traduce nel quasi nulla, allora io sudo sul divano e sento i coglioni girare a mille, prima che la frequenza salga a tremila quando vedo Moretti chinarsi e segnare di testa a un metro dalla porta al minuto 94.
Il Mancio è soddisfatto per la supremazia, ma l’abbiamo preso nel culo. Anche questo capita, per carità, è lo sport, è il calcio. Ma tutta questa leziosa supremazia, fatta di settemila passaggi laterali tipo rugby (facendo cioè attenzione a non farli in avanti), non è un po’ poco come obiettivo di qualità? Non c’era anche una scarsa brillantezza di comprendonio che ogni tanto sfociava in un po’ di indolenza? (questo è scocciante: qualcuno ha visto un forcing finale? Un accenno, almeno?) Non c’era un accanimento a cercare sempre la stessa soluzione anche se questa non produceva nulla?
Conta tanto anche il fisico, certo. Abbiamo l’infermeria piena, cazzo, e alcuni giocatori chiave in condizioni ancora farlocche. Però se alcune cose sono certe – siamo l’Inter, vogliamo arrivare terzi in campionato, vogliamo vincere l’Europa League, vogliamo vincere la Coppa Italia – serve comunque un cambio di passo. Nessuno stende tappeti. Arriveranno altri Torini a San Siro a difendersi con agili 7-2-1, e altri ne troveremo sparsi per lo Stivale man mano che la lotta per la salvezza renderà tignose le squadre presunte facili. Quindi, io spero che l’Inter si abitui a non vincere facile. Mentre noi, qui, dagli spalti o dai divani, non vorremmo abituarci a segnare molti asterischi della supremazia e pochi punti. Punti. Pochi. La tabella Champions post Inter-Genoa è cominciata con un punto in due partite. Empoli e Torino, mica Bayern e Real. A febbraio abbiamo un mucchio di cose da fare, e così – a sbalzi – non va bene.
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Waka waka

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Ecco, in effetti noi avremmo bisogno di un idolo. De-tripletizzata la squadra, ora in fase di thohirizzazione e mancinamento, avremmo bisogno di un qualcuno da cui aspettarci qualcosa, ma non in un semplice rapporto tifoso-calciatore (io tifo Inter fin da quando ero bambino e tu, mercenario strapagato momentaneamente fasciato dei miei colori, sei pregato di farmi vincere la partita), ma in un più complicato e affascinante rapporto tifoso-idolo (io tifo Inter fin da quando ero bambino e in quanto tifoso sono un mentecatto squilibrato e tu, mercenario strapagato dei miei coglioni, mi piaci oltre ogni ragione e ti concedo qualsiasi cosa perchè sei il mio idolo e gli altri non sono un cazzo).
Per dire: Recoba era un idolo. Io lo avrei strozzato a mani nude, e ha avuto l’impulso di farlo almeno settantacinque volte, ma ammettevo che da lui era lecito aspettarsi un qualcosa, anche perchè vedevo gli altri – quelli per cui Recoba era davvero un idolo, e io non li capivo fino in fondo, anzi, li sfanculavo di frequente – che avevano una strana luce acquosa negli occhi – una canna? no – perchè loro erano sicuri che il Chino, anche nel corso di una delle sue numerose partite di merda, un qualcosa avrebbe tirato fuori. Questa sfumatura l’ho capita quando un figuro seduto davanti a me, dopo un gol di Di Biagio di testa su calcio d’angolo tirato da Recoba stretto sul primo palo, pem!, si mise a saltare come un bambino urlando “Il cervello è bacato, ma il piede è telecomandato!” e lì capii per la prima volta che ci sono gli idoli ad personam o settoriali, insomma, ognuno ha il suo, e magari attualmente c’è qualcuno che come idolo ha Kuzmanovic e io lo rispetto.
Ecco, però noi, interisti del 2015 con le balle un po’ fruste, avremmo bisogno di un idolo corale. Un idolo corale che duri. No, perchè ci sono anche gli idoli caduchi, o addirittura gli idoli istantanei. Io ho vissuto a San Siro a metà degli anni Settanta una partita così, in cui a un certo punto – era un’Inter-Lazio finita 3-1 – tutto San Siro (tutto San Siro!) intonò il coro Ce-Ri-Lli Ce-Ri-Lli, una cosa bellissima, un omaggio a un giovane calciatore con i calzettoni abbassati che illuminò quella partita – era in trance agonistica, sembrava Suarez, giocava a testa alta, serviva palloni deliziosi – e io lì, anch’io, Ce-Ri-Lli, arghhhhhh!, e Franco Cerilli poi di fatto sparì, e però giocò una partita da idolo, e io c’ero e lo ringrazio perchè son cose che si ricordano.
No, ecco, però a noi oggi l’idolo usa-e-getta serve  poco o nulla. Ci servirebbe  un idolo vero, corale, mediamente duraturo. Che poi, non so se si è capito, l’idolo mica deve per forza essere il più forte. Ovvio, forte lo deve essere, ma niente superlativi assoluti o relativi. Serve uno di cui intravvedi una dote superiore (tipo Recoba, che poi ne aveva una decina inferiori, di doti, tra cui il cervello, ma quel sinistro, quel tiro, quel lampo di follia), uno che ti trasmette un brivido, uno per cui metteresti la mano sul fuoco perchè lui ci sta mettendo le gambe e le palle.
Uno da cui aspettarsi un qualcosa. Tipo lo Shaqiri di Inter-Samp, tipo, per dire.

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Lento pede

Empoli - Inter
Nella città di Mazzarri siamo ritornati un po’ mazzarriani, come se la mazzarrite fosse nell’aria, un virus tipo Ebola, e noi scendendo dal pullman lo abbiamo preso, trac!, che sfiga. Un virus meno feroce, non mortale ma bastardo, comunque preciso negli effetti: toglie idee, lucidità, brillantezza, tipo quelle influenze gastrointestinali che nei due giorni in cui stai seduto sulla tazza pensi solo alla dissoluzione del tuo corpo. Ho l’impressione che l’Empoli abbia fatto un partitone, anche se poi potremmo star qui a discutere sulle percentuali esatte del brutti noi/belli loro. Di sicuro, del primo tempo con il Genoa è rimasto poco o nulla, e son passati appena 6 giorni, dannazione. Uno zero a zero che è il quinto risultato utile consecutivo in campionato (due sole vittorie, però), il sesto risultato utile consecutivo contando anche lo 0-0 a Qarabag. Ecco, dopo lo sciagurato secondo tempo con l’Udinese abbiamo sempre portato a casa qualcosa, prendiamola così, in fondo non è così banale. 8 gol fatti e 4 subiti in sei partite, anche questo non è affatto male in assoluto  (no, dico, eravamo passati in negativo). Però se qualcuno aveva segnato tre punti a Empoli nella tabella post-Genoa, ecco, siamo già in ritardo netto. Vedo montagne di tabelle appallottolate nel nostro gigantesco e ideale cestino. La rimonta è avviata, ma lentamente. Oddio, firmerei se mi dicessero: ogni due giornate recuperi una posizione. I conti tornerebbero. Ma ci manca ancora un po’ di spietatezza, non ci si può accontentare di partite così, poi si scappa la poesia e puff. Per dire: se giochiamo così mercoledì con la Samp, in una partita fondamentale – l’ha detto il Mancio che le Coppette bisogna vincerle -, rischiamo l’overdose da Orociok, e siamo solo a gennaio.

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Tu che mi abbatti il Mancio

Poche balle: l’acme calcistico di queste ore non è il Pallone d’oro a Ronaldo e nemmeno il selfie di Totti, ma la pallonata in faccia a Mancini. Questo blog non rinuncia alla sua vocazione di blog di inchiesta e di impegno sociale, e quindi trovo giusto scavare dietro questo episodio – apparentemente marginale –  per capire un po’ di più di Mancini, del mondo Inter e del calcio come fatto di costume e di vita.
Questa, intanto, è la foto del Mancio prima dell’incidente:
Roberto Mancini - Allenatore Inter
allora, qui preliminarmente notiamo come il nostro allenatore abbia investito almeno metà delle prima mensilità non per comprare un nuovo Gps per lo yacht, ma uno sciarpone monumentale per il quale saranno state tosate almeno 150 rarissime pecore del Kashmir subcontinentale. A giudicare dal numero dei giri e dei nodi, lo sciarpone è lungo almeno 4 metri e pesa 6,75 kg, per un prezzo di mercato pari al Pil del Nicaragua.
Ma veniamo all’accaduto:
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Mancini viene colpito dalla pallonata. Da notare l’estrema eleganza del gesto: con la destra mima il gangio-cielo di Kareem Abdul Jabbar, la sinistra resta in tasca da vero gagà. Lo sciarpone si apre e si nota la perfezione del nodo della cravata. Sulla sinistra, il quarto uomo guarda altrove: la prova provata che i collaboratori dell’arbitro non servono a un cazzo.
Avanziamo di un fotogramma:
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Il Mancio assume la posa di Nino Castelnuovo nel celeberrimo spot dell’olio Cuore. Da notare che, curiosamente, cadendo la sua pettinatura diventa del tutto simile a quella di Solange. Sullo sfondo, nel disinteresse generale, una persona si mostra finalmente molto turbata dall’accaduto.
Andiamo avanti:
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si noterà come il pallone sia ancora in volo dopo il triplo tolup del Mancio, testimonianza di come tutto sia accaduto in poche frazioni di secondo. Da sinistra verso destra tre particolari molto importanti: 1) le scarpe del Mancio costano almeno 1500 euro; 2) la mano del Mancio rimane in tasca, segno di eleganza innata anche a rischio di fottersi lo scafoide (e qui apro una parentesi: Mazzarri cade dalla scaletta e si frattura il metacarpo, Mancini rischia la vita e il polso e non si fa un cazzo. No, per dire); 3) da questa inquadratura, complice il sole che in quel momento bacia Milano, è evidente che il Mancio si tinge i capelli di un castano chiaro molto tendente al biondo, una via di mezzo tra Matthew McConaughey e Claudio Lippi. Ora, occhei, io ho avuto personalmente una polemica con il Mancio sul fatto della blefaroplastica, occhei, ma qui mi sembra tutto molto chiaro.
Quinta fotografia:
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i due massaggiatori dell’Inter si sincerano che l’allenatore sia ancora in vita e, soprattutto, lucido: Della Casa gli chiede “Thohir ti ha comprato Cristiano Ronaldo al mercato di gennaio?” e il Mancio risponde correttamente “Fino al 2 febbraio tutto è possibile”. A sinistra, Izzo, il mostro del Circeo, si avvicina e chiede a Mancini come sta e, per caso, se c’è posto all’Inter. Dietro, un delusissimo Nebuloni sperava di raccontare una morte in diretta e niente, gli è andata male, manco un graffio, un’epistassi, niente, un cazzo, ma vaffanculo. In primo piano, la ragione per cui Mancini ha tenuto la mano in tasca: non graffiare l’orologio da 75mila euro.
Ultima fotografia, la più inquietante.
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Andreolli. Come è noto, è stato lui a tirare la pallonata in faccia al Mancio. Un tiro secco, preciso. Pum! Non s’è manco fermato, è andato subito a coprire in difesa, diligentemente. Izzo è andato a sincerarsi che il Mancio fosse vivo, Andreolli un cazzo, via, arrivederci e grazie.
Ecco.
Caro Andreolli, ma se a uno che ti schiera titolare con la fascia da capitano tu tiri una pallonata in faccia, voglio dire, cioè, se Thohir ti prolunga il contratto e ti aumenta lo stipendio cosa gli fai, gli ciuli la moglie?

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Il mio nome è Riccardo

Soccer: Serie A; Inter-Genoa
In ordine a un adeguato sentimento di accoglienza nei confronti dei due nuovi arrivati in casacca neroazzurra, e in virtù di un singolare orario di svolgimento che non entrava in collisione con i rispettivi impegni, io e Gigi Furini decidemmo di acquistare in prevendita il titolo di ingresso per la partita di giuoco calcio tra Internazionale e Genoa in programma allo stadio Giuseppe Meazza in Milano. Ci recammo quindi venerdì 9 gennaio al botteghino dove l’addetto, qualificandosi come juventino viscerale, con uno sgradevole sorrisino del cazzo ci chiedeva i documenti e compilava stancamente il modulo sul calcolatore elettronico, stampandoci indi i biglietti del primo anello blu nell’apposito supporto cartaceo.
La giornata di domenica iniziava con Pavia avvolta in una suggestiva nuvola di nebbia che gelava anche i coglioni. Mi reco al luogo dell’appuntamento dove, con la visibilità ridotta a 50 metri, scambio Furini prima per un venditore ambulante di torroni e poi per una badante ucraina, che quasi faccio salire in macchina al grido di “Ciao Gigi, santamadonna, forza Inter, ti sei inchiattato parecchio!” prima di accorgermi che era un donnone di Donetz in libera uscita.
Si parte. All’arrivo sull’antistadio, sotto un sole cocente che mi fa pensare che Pavia almeno dal punto di vista microclimatico sia un posto veramente di merda, Furini mette mano al portafoglio per distribuire i biglietti. Prende il suo, leggendo “Furini Luigi”, e mi allunga il mio leggendo “Torti Riccardo”. Ahahahah, il solito buontempone, dico io. Ma dal suo sguardo attonito capisco che non è uno scherzo. Il bigliettaio gobbo ha scritto davvero “Torti Riccardo”.
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Infame maledetto, muoia tra atroci pene, o almeno Iddio e l’Asl gli facciano chiudere il bar. Mi trovo così in fila al cancello sudando freddo, avvicinandomi via via allo steward e prefigurandomi la scena: lui che vede che biglietto e documento non coincidono, lui che chiama i gendarmi e io che vengo perquisito sul posto e quindi tratto in arresto, io che arrivo a San Vittore e chiedo di avere una cella singola, o almeno con Sky, per assistere almeno al secondo tempo in attesa del mio avvocato.
Tocca a me. Deglutisco. Allungo biglietto e documento.
“Torti Riccardo o Torti Roberto?”
“Ti spiego. Io mi chiamavo Torti Riccardo, ma non sopportavo più il mio nome che mi ricordava Alvarez. Ho chiesto alla Corte di Cassazione di cambiare identità e la Corte ha emesso la relativa sentenza proprio venerdì pomeriggio. I biglietti li avevo fatti la mattina con il nome vecchio”.
“E come mai la patente è Torti Roberto?”
“L’ho rifatta ieri mattina, ho un amico in Motorizzazione”.
“Ah ok, allora puoi andare”.
Il primo tempo è poi trascorso in un’estasi calcistica, determinata dalla visione di una squadra trasformata, di un Podolski alto di gamma, di un Palacio ritrovato, di un Guarin che non pare più quel Guarin, di Vidic e Andreolli che sono vivi, di Shaqiri che scalpita in panca, di bei passaggi, di bei fraseggi eccetera eccetera eccetera. L’intervallo è poi trascorso scattando foto a Furini e ai suoi fans, compreso uno che mi fa:
“Scusa capo, ma tu sai come faccio a scattare le foto? Inquadro solo la mia faccia con questo cazzo di telefono, mi sa che mi hanno fregato, cinesi di merda”.
“No, amico, basta che fai così”.
“Capo, sei un mago della telefonia e dell’informatica. Sei hai l’Iban ti faccio una donazione, mi hai salvato la vita”.
“Ma no, figurati”.
Il secondo tempo è poi trascorso in maniera meno serena, ma l’importante è avere vinto, avere rivisto il gioco – il gioco! -, avere respirato aria nuova. Mentre esco torna il tizio a cui ho girato il verso del mirino con un semplice clic.
“Ti prego, fammi fare qualcosa per te, sei l’angelo della telefonia, #jesuistortiriccardo, hai salvato me e il mio telefono tarocco, ti prego”.
“No fratello, va in pace e tifa Inter”.
Festeggiavo quindi la vittoria con una focaccina cotto e fontina del costo di soli 4 euro, non molto più cara di un cornetto Algida allo stato semiliquido. E’ davvero un nuovo corso.
Inter - Genoa

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L'amica ritrovata

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Giuro, quei due minuti intercorsi tra l’entrata in campo di Osvaldo e l’espulsione di Kovacic – due minuti, 120 luridi secondi – sono stati i miei due migliori minuti di Inter da non so quanto tempo a questa parte. Tra melasse mazzarriane, squadre senza patria, partite della minchia e mediocrità diffuse, mi ero dimenticato di certe sensazioni. Ho visto intere partite rischiando le piaghe da decubito, addormentandomi come un vecchietto post-prandium, smadonnando senza Dolby surround, esultando con simil-sbadigli (go-awwwwgh-lll), senza nutrire grandi attese e aspettando senza fregole la fine dei novanta minuti. Un paio di partite di Coppetta le ho saltate a piè pari, oplà! E invece stasera, quando gli sguardi degli juventini tradivano l’impanicamento e l’Inter aggrediva come tante volte avrei voluto vedere – e mai avevo visto negli ultimi due anni, o forse tre, o forse boh -, ecco, ho visto che il Mancio a bordocampo dava istruzioni a Osvaldo e allora mi sono alzato e come un bambino dell’asilo ho urlato:
“Togli quel profeta della mia fava e metti Osvaldo e vinciamola, santiddio!”.
E quando in effetti pochi secondi dopo ha tolto il profeta della mia fava, quasi ad accontentare la mia invocazione, mi sono sentito pervaso di un interismo antico, forse anche un po’ ingenuo ma genuinamente impetuoso, perchè non ero solo io che volevo vincere la partita – chi non vorrebbe inculare la Juve nel Latta Scadente Stadium dei miei due zebedeos? – ma lo voleva anche il Mancio, cazzo, uh se lo voleva, e lo volevano anche i ragazzi, al netto dell’inguardabilità e dell’inadeguatezza di alcuni di loro, che si è stagliata anche a Torino, più che mai, perchè la Juve impanicata la dovresti trafiggere come ai tempi di Cruz o di Milito, e invece no, la pungoli, la spaventi, senti l’odore delle sue feci nelle mutande nike ma non l’ammazzi diobono, ahimè, ahinoi, non l’ammazzi, e resti 18 punti dietro, e non deflori l’Alluminium Drome, pazienza, però che nervi, che spreco.
Quando Er Croazia ha tentato (meritoriamente, s’intende) di svellere un bianconero puff!, 120 secondi dopo ci siamo ritrovati in dieci con l’avversario ubriaco ma anche la necessità di pararci il culo. E niente, è finita 1-1 ma in quei due minuti ho sognato a occhi aperti, anzi no, ho toccato la vittoria, l’ho sentita, ce l’avevo in mano, l’accarezzavo, tipo quando ti danno in mano la coppa e tu la devi issare, ecco, io già la impugnavo, aspettavo solo l’ufficialità.
Come vorrei poter dire che questa, finalmente, è stata la svolta. Dopo un brutto primo tempo, dopo aver preso un gol da strozzarne tre (ma per primo Ranocchia, l’Uomo Molle), entrato Podolski siamo diventati la squadra che dovremmo sempre essere, cattiva, cazzuta, pericolosa, determinata. Anche un po’ scarsa, porco cane, perchè questi siamo, ma in un campionatino dove vivacchiando ti tieni a galla oltre ogni aspettativa noi dovremmo essere qualche gradino sopra. E io ci voglio tornare, sopra. Vi voglio così. Brutti, sporchi, scarsi ma cattivi. E magari più – come direbbe Verdone – coesi. Tipo: ho un compagno sulla destra più libero di me, certo, è un pezzo di merda e forse tromba anche più di me, mi sta sul cazzo, però io non devo pensare a queste cose e gliela do, tic!, eccolo là, e adesso mettila pezzo di merda, gaaaaaaaaaaa!
No, rewind. Comunque, avanti così. Avere voglia di vincere, provarci, rischiare. Astenersi mozzarelle. Vi voglio bene, nonostante tutto.
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Io e Pino

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Nell’estate del 1976, è sera, sono al campo sportivo di Arma di Taggia per assistere a un concerto (uno dei primi live della mia vita, forse il primo) di cui capirò abbastanza poco: Napoli Centrale, jazz rock partenopeo, un po’ eccessivo per un dodicenne di Voghera in vacanza al mare. Al sax James Senese, al basso tale Pino Daniele. Lunga pausa. Nell’estate del 1979 guardo distrattamente alla tv il Festivalbar, tale Pino Daniele canta Je sò pazzo e io penso che vabbe’, questo dice cazzo in una canzone e così tutti parlano di lui, tzè. Nella primavera del 1980 (com’è? Solo gli stupidi non cambiano mai idea?) sto guardando la tv, c’è un programma in seconda serata su Rai1 e resto folgorato dal pezzo che passa con la sigla finale. Mi pare proprio quello della rima pazzo-cazzo. Aspetto i titoli di coda, lui in effetti è Pino Daniele, la canzone si chiama I say i’ stò ccà, un blues un po’ in napoletano e un po’ in inglese, una voce della madonna, le tastiere, ten-ten ten-ten, l’armonica. Quando, un paio di giorni dopo, ho comprato Nero a metà non potevo cogliere la grandezza intima del gesto. Stavo entrando in possesso di uno dei dieci dischi più belli della storia della musica leggera italiana e stavo indirizzando i miei gusti musicali verso una direzione ben precisa, che rimarrà quella. All’insegna dell’essere curioso e onnivoro, dello spizzicare qua e là, delle lunghe fedeltà e delle brevi infatuazioni, ma con un fil rouge che non si spezzerà mai.
Io avevo sedici anni e mezzo e Pino Daniele 25. Fare un disco come Nero a metà a 25 anni significa essere un grande della musica. No, scusa: un grandissimo.
Nell’ordine, negli anni successivi: mi regaleranno Vai mo’, che album, che conferma. Poi mi procurerò il precedente Pino Daniele per ascoltarlo fino alla consunzione, potentissimo, e anche Terra mia per conoscere i primordi. Poi arriverà Bella ‘mbriana, un livello di qualità a cui nessun italiano poteva lontanamente puntare. Poi Musicante, sperimentando una chitarra nuova (mai un disco uguale al precedente, mai). Poi il live Sciò, doppio lp, libidine.
Nel 1985 sono a Merano, durante il servizio militare, ed esce Ferry Boat. Tornando a casa per una licenza, un venerdì pomeriggio, scendo a Bolzano e corro a un negozio di dischi sotto i portici, poi corro di nuovo in stazione e prendo il treno per Milano per un pelo. Poi l’arab rock (boh? lo diceva Pino) di Bonne Soirée e quell’assolo disperato di sax di un disperato Larry Nocella. Poi Schizzechea with love, poi Mascalzone latino tutto con la chitarra acustica (ma Faccia gialla l’avete mai ascoltata? No?).
E qui si opera al cuore.
Nel frattempo, l’avevo visto in concerto, nel 1981, al Festival dell’Unità di Voghera, che era un festival con i controcazzi. Era il tour di Nero a metà e se ci ripenso mi vengono i brividi e sento ancora il mal di culo della lunga attesa seduto nel cortile della ex caserma. Poi l’avevo visto a Pavia, anche lì cortile del castello, anche lì mal di culo ma che concerto, era il tour di Bella ‘mbriana, una band spaziale, un concerto meraviglioso. Poi l’avevo visto di nuovo a Pavia, al palasport, d’inverno, tour di Mascalzone latino: ricordo solo che durante un pezzo si ferma, dice stop stop stop, cala il silenzio: “Scusate, mi sono sbagliato”. Applauso, e ricomincia.
Torna dopo i by-pass nel 1991 con Un uomo in blues, bel disco, e altri ne seguiranno, di inediti e di live. Comprerò l’ultimo album nel 1997, Dimmi cosa succede sulla terra. Per uno che aveva amato anche al milionesimo ascolto le parole di Voglio di più, A testa in giù, Chi tene ‘o mare e decine di altre (oltre che grandissimo musicista, il primo Pino Daniele era anche un eccellente paroliere), la deriva di testi del tipo Che Dio ti benedica, che fica o Col sorriso di plastica mentre fai la ginnastica era non più serenamente accettabile, così come lo sprofondo delle collaborazioni – prima Wayne Shorter, Gato Barbieri, Mel Collins, Pat Metheny, ora Irene Grandi e Alessandra Amoroso – imbarazzante. E’ la vita. Tutti abbiamo un parente con cui abbiamo rotto i ponti o un amico che improvvisamente non abbiamo più visto nè sentito. Io avevo Pino Daniele. Sono stato con lui per 17 anni di grandi emozioni, e ormai da 17 lo avevo lasciato al suo destino. Non ho ricordi di Pino Daniele con pettinatura stilosa e vestiti griffati. Pino Daniele è uno solo, per me, quello con la criniera scarmigliata, i vestiti inguardabili, ingobbito sul microfono, sudato, spuorco, poderoso, immenso.
Prima di salutarlo nel 1997, lo avevo ancora visto a Milano, al Forum, due volte: da solo sul palco, che emozione, nel tour del rientro dopo l’operazione, e poi con Pat Metheny, concertone. Poi allo showcase di presentazione di Non calpestare i fiori nel deserto, quell’occasione irreale in cui hai davanti Pino Daniele che suona per te e altre cinquanta persone, roba da matti. Poi ero andato alla presentazione del suo libretto “Storie e poesie di un mascalzone latino”, una robetta buttata lì un po’ così, ma lui era Pino Daniele e io mi sono messo in fila per l’autografo.  Tocca a me. Mi guarda: “Tu?”. Roberto. Scrive: a Roberto, Pino Daniele. “Ciao”. Ciao. Ciao Pino.
Cinque giorni fa, la sera di San Silvestro, mentre sono a tavola con amici, orecchio dal televisore – acceso per captare il countdown ufficiale per il brindisi – uno che sembra fare decorose cover di Pino Daniele, poi sento un assolo di chitarra e mi dico: minchia, lo fa proprio preciso. Mi alzo e vedo che è Pino Daniele in persona. Canta allo show di Capodanno di Rai1, mentre canta scorre sullo schermo il testo della canzone. E’ un karaoke, praticamente. Pino Daniele. Torno a tavola con il magone.
Lo stesso magone che ho adesso a ripensare al mio Pino, il mio amicone, quello del periodo 1980-1997, quello che ho conosciuto per un assolo di armonica e ho abbandonato prima che fosse troppo tardi. Non ci siamo più visti da allora, ma mi ha lasciato cose – dischi, canzoni, musiche, emozioni – che non si cancellano e che per fortuna restano per i posteri, me compreso. Il feeling è sicuro / Quello non se ne va.  A volte non si deve aver paura di dire banalità del tipo “un piccolo pezzo della mia vita che se ne va”: anche se si tratta di un musicante, anche se sono solo canzonette, a volte è vero.
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Che cosa sei

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Con una certa soddisfazione, alcune testate salutano – dopo il ritorno di “Pazza Inter” – il ritorno della pazza Inter: quella che va sotto di due reti e poi pareggia con la Lazio, che poi è la stessa squadra che va in vantaggio e poi si smarrisce e perde 2-1 con l’Udinese, e la stessa che va in svantaggio e poi rischia il tracollo con una squadra dalla dubbia sede sociale e poi vince 2-1 in Coppetta League, e la stessa che fa un mucchio di cazzate da almeno due mesi e tutta l’Italia è soddisfatta perchè l’Inter è pazza e  regala soddisfazioni a chiunque.
Tra novembre a dicembre l’Inter ha giocato dieci partite (tre con Mazzarri e sette con Mancini): sette in campionato e tre in Europetta League. Il bilancio è pessimo (2 vittorie, 5 pareggi, 3 sconfitte), e catastrofico se si considera il solo campionato (1 vittoria, 3 pareggi, 3 sconfitte). L’ultima partita di ottobre fu anche l’ultima vittoria in casa in campionato, rigorino all’ultimo minuto e ciao Samp. Sono passate nove settimane e sembrano nove mesi. Non solo perchè nel frattempo è addirittura cambiato l’allenatore, ma perchè dopo Inter-Samp – era la nona giornata – eravamo a un punto dal terzo posto e a “soli” sette dal primo e, in un certo senso, il mondo ancora ci sorrideva nonostante qualche punto buttato nel cesso e partite apocalittiche tipo Cagliari e Fiorentina.
E’ incredibile che sette partite dopo, pur avendo raccolto sei punti in due mesi, avendo perso più partite del Sassuolo, avendo preso più gol di 14 squadre su venti (due gol a partita nei due mesi demmerda), la situazione non sia del tutto compromessa. Il terzo posto è a sei punti – anche perchè lá davanti si balla il minuetto, un passo avanti e uno indietro – e se solo avessimo vinto con l’Udinese (ok, con i se e con i ma, certo, ok… ma stavamo vincendo in tranquillitá, no?) saremmo a tre punti pur con il nostro carico di partite di merda, di sprechi orribili e di equivoci da cui non usciremo mai. In un campionato che dal terzo posto in giù é una chiavica, noi – incredibile – possiamo ancora dire la nostra.
Punti di riferimento: ancora zero. Siamo quelli del primo tempo con l’Udinese o quelli del primo tempo con la Lazio? Siamo quegli sbandati del secondo tempo con l’Udinese o quegli arrapati del secondo tempo con la Lazio? Siamo arrivati al panettone e siamo una massa informe da cui esce tutti e il contrario di tutto, Kovacic che la mette al volo da 20 metri e Felipe Anderson che va due volte in porta col pallone, e via così, pazza Inter, verso l’infinito e oltre, sì, oltre il decimo posto e prima del dodicesimo.
Ora c’è il pandoro, poi la Juve (si gioca in Italia, quindi è probabile che ci faccia il culo) (ma noi siamo la pazza Inter, occhio). Dopodichè si staglieranno all’orizzonte il mercato di gennaio e una ventina abbondante di partite da giocare, più il Celtic. Può succedere di tutto, ma non chiedetemi cosa nè come: al 22 di dicembre non ci ho ancora capito un cazzo.
 
 

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Il sorriso di Franco

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Avevo conosciuto Franco in un’altra vita – la sua, intendo – quando faceva ancora il giornalista a tempo pieno. Era una riunione di capiservizio di non mi ricordo bene cosa a Roma, in via Po, alla nostra casa madre. Fatti due conti, io avrò avuto trent’anni e lui quindi aveva da poco passato i quaranta. Un flash di vita come un altro. Ma ovviamente lui e la sua sedia a rotelle, di tutto quel bla bla e di quella veloce trasferta romana, erano la sola cosa che mi erano rimaste impresse, così, di default, perchè stavo dando un volto a nomi e voci che già più o meno conoscevo, e nel suo caso c’era anche da dare una dimensione, inaspettata, che colpiva. Franco poi non l’ho più rivisto per quindici anni, finchè per ragioni di blog e di social network me lo sono ritrovato sulla strada da interista, pregio che mai mi sarei aspettato da uno che nel mio cervello era catalogato come giornalista padovano e bòn.
Ci scriviamo qualche volta. Un giorno vedo il suo nome stampato sul mio giornale, in una breve di cronaca, annunciato ospite di una iniziativa sulla diversità e sulla disabilità a Pavia. E allora vado in piazza della Vittoria e gli faccio la sorpresa: “Ciao Franco, sono Roberto, cioè, Settore, sì insomma, hai capito”. E’ domenica, un pomeriggio di sole, e lui ha scelto un angolo ombreggiato. Sullo sfondo le pellicce di Annabella. Di fianco c’è la sua compagna.  Gli  racconto di quella cosa di Roma e naturalmente non si ricorda un cazzo. But who cares? Stiamo già parlando di Inter e meno male che a un certo punto lo cercano perchè tocca a lui, da lì a poco, sennò avremmo fatto notte.
Franco era una bella persona, e taglierei corto così, con una formula banale ma terribilmente vera nel suo caso. Era un uomo impegnato, intelligente, coraggioso (molto), che è costantemente andato oltre gli ostacoli che la vita gli ha riservato. Quello che lo rendeva speciale era il suo sorriso, perchè ci vogliono due palle così per avere un sorriso così. Di fronte a una persona con le sue difficoltà, avresti dovuto essere tu ad avere il sorriso rassicurante. E invece ce lo aveva lui. Lui rassicurava te. Anche in questi giorni, in ospedale, era lui – scrivendo su Facebook, sui suoi blog, rilasciando a Telethon un’intervista che adesso è impossibile guardare senza commozione – che veniva a trovare noi, e non il contrario come doveva essere, e come mi spiace non aver fatto per scambiare ancora una volta, l’ultima, qualche battuta. Ringrazio Roberto Monzani per essere passato a trovarlo e avergli trasmesso, credo, l’affetto di noi tutti. Ecco, anche l’affetto. Doveva toccare a te essere affettuoso, premuroso. Macchè, lui lo era di più. Mi piaceva piacergli. Me lo scriveva, me lo diceva. Ci facevamo spesso i complimenti, ma non per convenzione. Lui era uno sincero, aperto. Franco, no? Non si è mai nascosto, anzi, stava in prima fila. Arrivava  dappertutto, anche in cima a quella micidiale scaletta di Inter Channel, dove gli piaceva un mondo andare a parlare di Inter con il suo amicone.
L’Inter. Con tutti i suoi guai, con tutti i suoi impegni, nel mezzo di tutte le sue battaglie, aveva sempre un posto per l’Inter. Ecco, se penso al suo sorriso e al suo essere interista, così interista, mi sale una gran malinconia e una gran tenerezza insieme. Sarebbe una bella cosa se domenica sera l’Inter si ricordasse di lui. Ciao Franco, e lassù insegna (no no no, ti vedo mentre mi mandi affanculo, vecio).
R.

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Meno male

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Cioè, c’era il problema aggiuntivo della scaramanzia statistica. Perchè l’Inter aveva giocato sicuramente altre volte il giorno del mio compleanno, figuriamoci. E con risultati alterni, ovvio. Tipo l’anno scorso, che mentre tornavo dalla maratona di Pisa ne prendevamo quattro a Napoli. O tipo il 2010, che vincevano la semifinale del Trofeo mondiale dell’Amicizia superfiga tra i popoli dei Continenti  conosciuti battendo il Gangnam Style per 3-0 guadagnandoci la finale a Budabi. Poi mica sempre abbiamo giocato, il 15 dicembre: io sono nato di domenica ma c’era la pausa per la nazionale, che il giorno prima aveva battuto l’Austria. Insomma, al limite si potrebbe fare del folklore sull’Inter del 15 dicembre, e morta lì.
Ma c’era un precedente specifico, santiddio.
Il 15 dicembre 2001, quando ero ancora un uomo normale e al 5 maggio mancavano ancora 141 giorni, assistevo collassato sul divano a una bellissima partita a San Siro tra l’Inter di Cuper e il Chievo di Delneri, pim-pum-pam, una serata frizzante di belle giuocate e impetuose discese sulla fascia. Ricordo distintamente due cose: 1) mi alzai soddisfatto per la bontá dello spettacolo; 2) realizzai che il Chievo aveva vinto 2-1, Corradi, Vieri, Marazzina, e dissi tra me e me qualcosa del tipo bontá un cazzo. Non so se la Saiwa giá producesse gli Orociok, io comunque non ne facevo ancora uso.
Quindi confesso che la mia mente malata in questi giorni  ha incrociato un po’ di dati: Inter, Chievo, 15 dicembre, toccarsi i coglioni, non guardare la classifica, no, no!, non pensare a cosa succede se perdi pure questa, no! argh!
Per cui ho vissuto male la vigilia.
Invece la partita l’ho vissuta benino. Handanovic ha di nuovo dato un senso al suo stipendio, Ruben Botta si è rivelato decisivo – giusto darlo in prestito, è giá cresciuto un casino, The man of the match – e abbiamo vinto, cosa che non accadeva da un po’. Adesso capeggiamo la classifica di destra, che é una specie di Intertoto morale. Inutile spendersi in troppe chiacchiere: ammesso che qualcosa succeda a gennaio, bisogna arrivare vivi e vitali al match con la Juve, possibilmente con altri tre punti. Dopodichè, cioè dopo i gobbi, inizierá il campionato vero, quello dell’ultima chiamata. Demazzarrizzati e definitivamente mancinizzati, saremo soli con le nostre responsabilitá e le nostre ambizioni. Per mantenere i piedi per terra e un giusto livello di aspettative, in attesa di più ampie conferme, consiglio questa terapia: pensate alla vittoria, ai tre punti, alla rimonta eccetera. Poi pensate a Guarin. Funziona.

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