Eccetto Sassuolo

Storditi dalla sua bruttezza (nemmeno tra gli juventini, quelli con un minimo di senso critico diciamo, la Juve va per la maggiore in quanto a estetica), ci siamo davvero accorti di avere la Juve attaccata ai coglioni soltanto prima di Juve-Inter, dopo 12 giornate di campionato in cui il nostro primo pensiero è stato quasi sempre rivolto al Milan prima che, con due punti nelle ultime quattro partite, scomparisse dai radar.

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La Juve, invece, ha vinto 6 delle ultime sette partite, subendo un solo gol, a risultato acquisito, dal Cagliari. Dei sette gol subiti in tutto il campionato, la Juve ne ha presi 4 nella stessa partita dal Sassuolo (che è anche l’unica volta in cui hanno subito gol in trasferta) e, quindi, solo 3 nelle restanti 11. Ci vantiamo giustamente della nostra difesa e dei clean sheet di Sommer, ma la Juve è uguale uguale: otto volte imbattuti – loro come noi – in 12 match. E’ quasi uguale anche il cammino in campionato: anche loro hanno pareggiato con il Bologna in casa e perso con il Sassuolo (però fuori) e l’unica differenza è nella partita di Bergamo: noi l’abbiamo vinta, loro hanno fatto 0-0 e sono questi i due punticini che ci dividono.

Cioè: escludendo Sassuolo, entrambe rasentano la perfezione. Due perfezioni molto diverse, però.

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Perché la casella dei gol fatti dice il resto: noi 29 e loro 19, praticamente segniamo un gol a partita in più. Noi divertiamo e ci divertiamo molto più di loro, delle nostre dieci vittorie solo tre sono state con un solo gol di scarto, la loro specialità, il loro corto muso: a loro è successo cinque volte su nove, quattro volte nelle ultime quattro. E non a caso con queste ultime hanno iniziato a costruire le loro certezze (bene o male – spesso male – le vincono tutte) e le nostre (non ce ne libereremo mai, porca miseriaccia schifosa). Noi andiamo a Torino avendo vinto 5 trasferte su 5, loro ci aspettano all’Alluminium Cessum dove hanno vinto le ultime 5. Molto bene.

Che poi, a pensarci bene, che razza di novità è? Quante centinaia di volte le sorti del campionato sono passate dalle paturnie di queste due squadre? Quante centinaia di volte ci siamo trovati a giocarsi un qualcosa (anche solo un momento particolare, uno snodo di stagione, una leadership morale) (o anche solo la reputazione) con la Juve?

Quella di domenica è l’ennesima sfida tra due società – tra due mondi, ecco – che si stanno potentemente sul cazzo. Se c’è una distanza, oggi, non è nei punti, nelle difese, negli attacchi, nella forza, nelle ambizioni. E’ nella bellezza. Purtroppo non conta nulla, a livello pratico. A livello morale invece sì, un casino. E sarebbe bello imporre la bellezza a casa loro, andare a Torino a giocare e non a parcheggiare pullman in area. E’ uno schema spaventosamente pericoloso, a livello pratico (la Bellezza non parte mai favorita). Rasenta quasi l’autolesionismo, nella tana dei cortomusisti. Ma sai che soddisfazione.

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Quasi Master

Avesse vinto le Atp Finals, certo, avrebbe incamerato l’ennesimo record, primo italiano bla bla bla, e avrebbero fatto programmi su di lui in tv fino a Natale, e forse anche oltre, e l’avrebbero inondato di retorica fino all’inverosimile, ma il fatto che le abbia perse (in finale con il numero 1 in edizione extralusso) non cambia il giudizio su di lui, sul suo valore e sulle sue prospettive. Le Atp Finals, che una volta si chiamavano Masters, sono un torneo di fine stagione tra tennisti parecchio appagati e piuttosto esausti, con una formula che non c’è in nessun altro torneo (il round robin nel tennis è un controsenso). E’ un torneo, per dire, che ha vinto due volte Zverev e che hanno vinto una volta Corretja, Davidenko, Nalbandian, Dimitrov, persino Tsitsipas. E’ un torneo che non ha mai vinto Nadal. Si passa alla storia anche senza vincerlo, ecco. E non passi necessariamente alla storia per averlo vinto.

Non è per essere andato in finale con Djokovic – la cui testa è ancora due gradini sopra gli altri, e il fisico uno – e avere perso nettamente che dobbiamo giudicare la stagione di Sinner, ma per i conti con se stesso (e noi tifosi) che ha sistemato negli ultimissimi mesi. E’ diventato un top vero, per essere riuscito a battere tutti gli altri Top 10 e in particolare tutti i Top 5, un muro su cui sbatteva regolarmente e che finalmente ha abbattuto. Nelle ultime settimane ha sconfitto Djokovic e (tre volte di fila) Medvedev: non gli era mai riuscito. E poi Tsitsipas, e Rune, e tutti gli altri. C’è una bella differenza tra essere nei Top 10 “solo” perchè hai fatto una marea di punti ed essere nei Top 10 perchè sei in grado di battere tutti.

Ascolta “#bonus – Techno macedone, Oasis e rigori” su Spreaker.

Il 2023 di Sinner rischiava, fino a due mesi fa, di essere una stagione incompiuta. Per essere un Top 10, gli Slam erano andati maluccio. Male l’Australia, male Parigi, male New York. Bene Wimbledon, ma le semifinali erano state frutto di un tabellone molto molto molto fortunato: poi trovi Djokovic e puff, fine. La sua classifica Jannik se l’è costruita altrove, su campi meno nobili ma con un rendimento sempre elevato. Fino a vincere un Master 1000 e a eguagliare Panatta a quasi 50 anni di distanza: quarto posto nel ranking Atp, numero di finale per stagione, numero di tornei vinti. E’ già nella Storia, quella italiana almeno.

A settembre riesce anche a rendersi antipatico (due mesi fa: sembra incredibile, adesso è l’eroe nazionale, hanno spostato la diretta su Rai1, roba da matti) dandosi malato alla convocazione in Coppa Davis (peraltro non lo biasimo: ha fatto bene, questa Coppa Davis è una barzelletta) e poi riguadagna la stima generale vincendo un sacco. Fino a fare le sontuose Atp Finals che tutti abbiamo visto, quattro grandi partite e una finale dignitosissima con un Djokovic ingiocabile – lo si era visto la sera prima con Alcaraz, triturato.

Questo autunno 2023 segna, comunque sia, il passaggio di grado di Jannik Sinner. Ha avuto pazienza, più di quanta ne abbiano avuto tutti gli addetti ai lavori e ai fini intenditori che lo considerano un predestinato da almeno cinque o sei anni e che pensavano di vederlo collezionare Slam giocando in surplace. Poteva cedere alla vanagloria e invece no, mai. Si è stabilizzato nelle zone alte del tennis, si è costruito una credibilità fisica (quella tecnica c’era), è un giocatore non solo apprezzato ma ora parecchio temuto. Non deve abbattersi per la finale di Torino: ha perso con Djokovic che è un mostro, uno che – se è anche solo al 70-80% dell’efficienza – non lo batte nessuno. Lo batterà solo il tempo e Sinner di questo si deve occupare: di essere lì nel gruppo degli eletti che ne prenderanno lo scettro.

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Il culo del campione (Dima Claus is comin’ to town)

Il gol di Dimarco è un po’ come Babbo Natale: è bello crederci. E’ bello credere che sia stato al 100 per cento frutto di genio, fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Che il nostro quinto di sinistra in un momento di trance agonistica abbia notato con la coda dell’occhio il portiere del Frosinone fuori dai pali (poco, tra l’altro) e abbia deciso in una frazione di secondo che quel pertugio tra la traversa e il braccio che si sarebbe proteso potesse essere centrato con esattezza con un tiro così, oooooop!, ed è gol!

E’ stata la stessa Inter, pubblicando l’ennesimo video del gol sui suoi social (quello con la ripresa dal basso), a smascherare in un certo senso Dimarco: quando alza la testa prima di tirare, Dima guarda chiaramente alla sua destra – gira il collo -, cioè ai due compagni che stanno scattando verso la porta, in particolare a Dumfries, più largo sulla destra e più libero di smarcarsi. Solo dopo aver tirato guarda verso la porta o verso il pallone, boh, perchè ormai sono un tutt’uno, il cross venuto male sta diventando un tiro venuto benissimo e bòn, ciao ciao Frosinone e viene giù San Siro, come giusto.

Qui il video con tutte le angolazioni possibili (quella che ci interessa è al 3′ 38″)

Perché il punto è proprio questo: volontario o meno è un gol fantastico, il prodotto del tiro di uno coi piedi buoni e col sinistro buonissimo, uno che con quella gamba fa cose non casuali – tutti gliele hanno viste fare – e quindi l’impresa resta, anche se con una percentuale di casualità che possiamo metterci qui a calcolare dopo estenuanti discussioni, sempre se a qualcuno interessi. Il gol da centrocampo è come il gol di tacco, il gol in rovesciata, il gol dopo avere fatto coast to coast, il gol dopo averne dribblati cinque o sei, cioè il gol che tutti sognano di fare una volta nella vita. E Dimarco adesso lo può spuntare nella sua lista.

Ascolta “#16 – Ciocie, ciociari, cross che non lo erano e ancora quiz” su Spreaker.

Mettiamola così. Non vinci la Maratona di New York se non hai sotto due polmoni e due palle così, ma se metti le scarpe al carbonio monouso da 500 euro un minutino lo rosicchi. E non segni il gol di Dimarco se non sei un giocatore così e hai un sinistro così, ma se hai anche un po’ di culo il tuo missile da 56 metri e rotti si infila sotto la traversa e vall’a piglià. E chi scriverà “Dimarco” nel campo di ricerca di YouTube lo vedrà per l’eternità. Non è semplice culo, insomma: è il culo del campione.

Perché se fossi io quello lanciato sulla fascia di un qualsiasi stadio, ecco, manco in mille tentativi faccio il gol di Dimarco, nemmeno con un 110% di culo del principiante. Me lo vedo già il mio pallone che si impenna, rimbalza al limite dell’area e dopo quattro rimbalzi esce in fallo laterale dalla parte opposta, forse. Oppure si ferma come impantanato in un campo pur asciuttissimo, o come sgonfio dopo qualche goffo ponf ponf ponf. E mi viene in mente la scena con me protagonista una ventina d’anni fa in un villaggio vacanze – devo averla già raccontata, ma si attaglia alla perfezione – quando vengo convinto da un animatore a provare il tiro con l’arco e mi presento alla piazzola tipo Fantozzi quando dice “sono stato azzurro di sci”, tzè, adesso faccio centro e li umilio tutti, tendo l’arco, scocco la freccia, la vedo partire e puff!, planare triste nell’erba cinque metri prima del bersaglio. Al che faccio all’animatore: “Ehm, mi sa che devo cambiare impugnatura”, e lui mi fa (con accento romanesco)

“No Robè, tu me sa che devi cambià la colazione”.

Quindi viva Dimarco e le sue doti balistiche che sono vere e non presunte. Diciamo allora – e qui chiudo – che altri tiri da centrocampo mi avevano dato un’impressione più netta di volontarietà, tipo quelli di Stankovic, questo ma soprattutto questo, leggendario, e quello di Recoba* (praticamente da fermo, per giunta, un capolavoro assoluto). Per dire, anche questo di Florenzi, molto simile, mi sembra più volontario (per quanto alla sperindio) perchè lui guarda la porta. E anche questo mi sembra più volontario (vabbe’ dai, era una battuta) (ma fino a un certo punto).

*) la cosa meravigliosa del video del gol di Recoba è che un attimo prima del tiro uno dell’Empoli interviene a corpo morto su uno dell’Inter che vola via come un fuscello. Un intervento che oggi sarebbe da rosso e forse anche da arresti domiciliari con obbligo di firma. L’arbitro lascia correre come un gesto per dire: tutto ok, dai dai, alzati. Era 25 anni fa.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Diciamo che l’argomento base sarebbe l’Inter, ecco)

(il podcast, giunto al sedicesimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venite a piangere)

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56 metri (di dimensione artistica)

Non trovate che la Nazionale giochi troppo spesso? Una pausa al mese è un po’ eccessiva, no? Che poi la pausa è per noi, non per loro, i giocatori. Soprattutto se una squadra – prendiamone una a caso: l’Inter – ha quei 2-300 nazionali in rosa ed è tutto un fiorire di passaporti e carte d’imbarco e tutto si risolve con un bel turno infrasettimanale fake (noi vorremmo l’Inter, non la Nazionale) eppure vero (loro vorrebbero riposare, invece giocano due partite). Io poi penso sempre a Lautaro, che magari vorrebbe andare alle terme a farsi una jacuzzi di tipo 3 ore per sciogliersi i muscoli dalla nuca in giù e invece prende l’avion, cambia emisfero, gioca con Uruguay e Brasile e poi riprende l’avion e qualcuno magari pensa che nella pausa si è rigenerato.

A parte tutto questo – che con i nostri 2-300 nazionali in rosa è un problema – c’è poi la questione dell’emozione che si interrompe. E qui, oggi, 13 novembre, non so che posizione prendere, più che altro per pudore. Nel senso che ieri sera c’era una forte emozione nell’aria, un gasamento potente, diffuso, che è sempre una bella cosa. Ecco, forse un tantinello esagerato se pensiamo che tutto questo si generava dopo un 2-0 in casa con il Frosinone alle 12esima di campionato, mica dopo un 7-0 al Real Madrid in una semifinale di ritorno di Champions. Certo, la vinci con un tiro da 56 metri che resterà negli annali e con un rigore procurato con uno slalom che Pierino Gros al confronto era un manichino dell’Oviesse. Ma è sano?

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Certo che è sano, vivaddio, è sanissimo. Ma se non ci fosse ‘sta cazzo di pausa delle nazionali, come saremmo andati alla sfida con la Juve? E come ci andremo tra due settimane, con la pausa in mezzo? Era meglio andarci gasati da un 2-0 al Frosinone? O sarà meglio andarci dopo aver metabolizzato la nostra esatta dimensione (e quella altrui) e la qualità degli impegni che ci attendono, a cominciare dalle tre trasferte in sette giorni – Juve, Benfica, Napoli (con allenatore nuovo) – che sarà il nostro vero esame di maturità?

Io Juve-Inter l’avrei giocata domani, accidenti, e invece è in programma domenica 26, cioè tra una vita. Ma questo riguarda solo la fanciullesca e bulimica voglia di Inter. Juve-Inter è invece diventata una cosa maledettamente seria. La Juve ha due punti in meno di noi, cioè nulla, una partita che noi abbiamo vinto e loro hanno pareggiato. Le partite della Juve sono di una bruttezza rara, ma ne vincono tre su quattro e questo è un fatto. Alla fine tutte inciampano o sprofondano (il Milan che era andato a +2 adesso è a -8, il Napoli è a -10) e a galla resta la Juve. Che novità, eh?

Sarebbe stata una figata giocarla subito, questa sfida. Invece dobbiamo gestire un’attesa lunga due settimane. A suo modo, una figata anche questa. C’è poi una terza figata: è l’Inter. Che ci prende ogni voglia di più, ci trascina a cantare e pogare anche con il Frosinone. Oh, mettiamola così: finchè dura, va tutto benissimo. E la missione è proprio questa: farla durare il più possibile (perché poi il resto vien da sè).

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Già fatto

A me il turnover piace. Praticamente funziona così: tieni fuori alcuni buoni, poi a un certo punto li rimetti dentro, vinci, ti qualifichi con due giornate di anticipo alla fase finale di Champions, ti qualifichi con due anni di anticipo al mondiale per club, cose così.

A Salisburgo Inzaghi ha preso qualche rischio, tenendo fuori contemporaneamente i detentori del 90% della garra dell’intera rosa (Lautaro, Barella, Dumfries) e schierando così una squadra ingentilita nei modi e praticamente priva di centrocampo (tutti largamente insufficienti). Eppure non ci è successo niente. Difesa molto sul pezzo (beh, abbiamo anche scoperto che Bisseck lo si può far giocare), attacco abbastanza brillante, abbiamo portato a casa il primo tempo e nel secondo ci siamo pure divertiti. Thuram ha fatto una partita alla Leao, però anche meglio – anche se non ne parlerà nessuno -, e Lautaro ha giocato una mezz’ora da sballo. Mettici anche che al posto di due centrocampisti smunti ne prendi due più in palla – Barella e Asslani – e la partita è vinta.

Ascolta “#15 – Salisburghy, Konaté e un quiz” su Spreaker.

Cioè, rendetevene conto: al 9 novembre siamo già qualificati in Champions. Dopo anni e anni di penultime e ultime partite col cuore in gola (e con qualche finale tragico) possiamo tirare un mezzo sospiro di sollievo, anche se sarebbe meglio arrivare primi che secondi e dunque non prendere sottogamba le prossime due partite.

Il ciclo delle cinque micidiali trasferte in sei partite è iniziato con due vittorie con modalità simile: quota fisiologica di futbol bailado, poi un po’ di attendismo, di ruvida concretezza e la carta del talento giocata al momento giusto. Stai a vedere che la partita più critica diventa quella col Frosinone, quella da rilassamento di default. Vietato distrarsi, neh?


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Diciamo che l’argomento base sarebbe l’Inter, ecco)

(il podcast, giunto al quindicesimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma sarebbe un peccato)

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Visitors

E se, con serenità, ci dicessimo che la partita di Bergamo era la più difficile delle undici giocate fin qui in campionato, e che l’abbiamo vinta, e che l’abbiamo vinta bene, cioè andandocela a prendere non solo sul campo dell’avversario, inteso come stadio, ma anche sul suo terreno, inteso come la comfort zone di un match ruvido, aspro, scivoloso (in tutto e per tutto), fisico?

E se, con serenità, ci dicessimo che la partita di Bergamo era il primo vero scontro diretto del campionato – Milan e Roma troppo brutte per essere vere – e che lo abbiamo vinto, e che l’abbiamo vinto bene, sul campo di una squadra che in casa non aveva ancora subito un gol? (anche noi non ne avevamo ancora subito uno in trasferta, Atalanta-Inter era interessante a prescindere)

Ascolta “#14 – L'Atalanta, i nostri Colleoni, AI e AHAHAHA” su Spreaker.

No, perché è proprio di serenità che ci dobbiamo armare adesso – l’Inter, dico, ma anche noi tifosotti per induzione – nel prenderci le giuste responsabilità. Siamo primi in campionato, primi in Champions, abbiamo iniziato bene il terribile mini-ciclo delle cinque trasferte (e che trasferte!) su sei partite, e serenamente dobbiamo prenderne atto e agire di conseguenza. Anzi, pensare di conseguenza. Prendere confidenza con questa nostra dimensione.

Il bilancio stagionale è oltre ogni previsione, 11 partite vinte su 14, tanti gol fatti, pochi gol subiti, quasi sempre belli o efficaci o entrambe le cose. Due delle tre partite che non abbiamo vinto sono state quelle due sciagurate esibizioni – in casa – con Sassuolo e Bologna, l’altra è stata una trasferta di Champions che abbiamo riacciuffato forse oltre ai nostri meriti, ma credendoci.

Ieri è accaduta una cosa che nel suo piccolo dice tanto, secondo me. Si è fatto male Pavard, si è fatto parecchio male, poteva essere una svolta negativa, un infortunio che colpiva un giocatore non-qualsiasi, uno dei nuovi capisaldi della squadra, un infortunio brutto, di quelli che fanno tremare le gambe anche a tutti gli altri. Niente, è entrato Darmian, ha fatto un partitone, si è procurato il rigore, non c’è stato nemmeno il tempo di preoccuparsi o di smadonnare che già eravamo proiettati a vincere la partita.

Un segnale di forza. Vorrei sempre vederli così, i ragazzi. Magari più sporchi e cattivi, se le circostanze lo richiedono. Magari meno belli, ma dritti al punto. Noi ci divertiamo lo stesso, no?

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A brand new friend

Del Lukaku 2, vabbe’, non parliamone nemmeno. Del Lukaku 1, invece, ci restano (restavano?) dei bei ricordi. L’impatto di Big Rom sull’Inter fu straordinario, non solo in campo ma anche fuori. Tanto che non ci si capacitava delle voci che arrivavano dall’Inghilterra su questo ragazzone, come dire, non affidabilissimo. Boh, da noi sembrava affidabile eccome. In campo e anche fuori. Un punto di riferimento, una nuova icona dell’interismo. E poi, la cosa più bella, la straordinaria intesa con Lautaro, il compagno di reparto, l’amicizia, la stima, il feeling che si traduceva in gol e assist. La sua firma sullo scudetto. Sembrava tutto così sincero, così destinato a durare. Non lo era.

Ascolta “#12 – Daje de tacco, daje de punta, 47' di puntata” su Spreaker.

La serata del ritorno di Lukaku a San Siro si è conclusa con l’immagine qui sopra, due ragazzi sorridenti sotto la curva, Lautaro con il suo nuovo amico Thuram, una coppia che funziona di brutto e che tutti noi speriamo che possa durare tanto, il più possibile. E’ il presente dell’Inter, forse il futuro. Di sicuro è un calcio al passato, cioè a Lukaku. E un invito a concentrarsi sull’Inter di adesso, più bella, divertente e interessante di una serata trascorsa a fischiare un fantasma.

Questa sera nè Lukaku (novanta minuti penosi, del resto la tendenza a sparire nelle partite più complicate l’ha sempre avuta) nè Mourinho (dichiarazioni post-partita tra il provocatorio e il piagnonismo, ok le assenze ma il resto è caciara) hanno dato il meglio di sè. Pazienza. Noi sì, siamo stati più forti, anche se tutt’altro che perfetti. 19 tiri per fare un gol, e farlo solo all’81’, significa trascorrere quelle belle serate di passione (nel senso di sofferenza) interista in bilico tra l’estasi e l’incubo di una beffa che può sempre arrivare, tipo uno 0-0 che sarebbe stato profondamente ingiusto o peggio ancora uno 0-1 (sull’unico tiro subito) che ci avrebbe fatti impazzire.

Adesso, finalmente, arriva il difficile. Finalmente perché dobbiamo uscire da tutti gli equivoci se vogliamo davvero spiccare il volo. Ci aspettano sei partite in un mese, una in casa (con il Frosinone) e cinque in trasferta (Atalanta, Salisburgo, Juventus, Benfica, Napoli), nelle quali ci giochiamo la leadership in campionato e la qualificazione in Champions. Questo mini-ciclo dirà tanto sull’Inter. Rimettiamo i fischietti nel cassetto, perchè ora servono concentrazione, garra e un pochino di cinismo in più. Con i sorrisi invece siamo a buon punto. E non è per niente secondario.

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Vincere non vincere, segnare non segnare

Lo scintillante Milan espressione della più genuina dimensione europea non ha ancora segnato un gol in tre partite di questa Champions, cui vanno aggiunti anche gli zero dei due derby di semifinale della scorsa primavera: il totale fa cinque, record negativo di ogni tempo (resta comunque la squadra con più dimensione europea) (secondo loro). Il loro migliore attaccante ha 37 anni e non segna da otto partite di fila. Il Pallone d’Oro in pectore (sempre secondo loro) non segna da più di un mese. Se non fosse per Paolino Pulisic, questi erano alla canna del gas. E invece – qui volevo arrivare – il Milan con l’attacco in crisi è secondo in campionato un punto dietro di noi (anche se gliene abbiamo dati cinque nel derby) (intaccando non la dimensione europea, ma italiana sì).

Ascolta “#11 – Scarpe, amori e amari amori” su Spreaker.

In campionato, otto gol di differenza (noi 24, loro 16) fanno solo un punto di differenza in classifica. La cosa curiosa è che il Milan ha segnato metà dei suoi 16 gol, 8 appunto, nelle prime tre giornate, quelle che precedevano la prima pausa per la Nazionale. Ha segnato metà dei suoi gol tra il 21 agosto e l’1 settembre (2 al Bologna, 4 al Torino, due alla Roma). Questo vuol dire che ha poi segnato la miseria di 8 gol in due mesi quasi pieni, tra il 2 settembre e il 26 ottobre, praticamente uno alla settimana. Anche noi avevamo segnato 8 gol nelle prime tre di campionato, e quindi 20 (16 in campionato e 4 in Champions) tra settembre e ottobre contro i loro 8. 20 contro 8. Ok, in Champions loro ne pagano le conseguenze. Ma in campionato, cazzo? Tra settembre e ottobre, loro si sono presi 5 pere nel derby, poi ci hanno rimontato, ci hanno superato e li abbiamo superati solo qualche giorno fa dopo Milan-Juve. Tutto questo segnando la metà dei nostri gol, 8 contro 16.

Sarebbe troppo banale dire che le vittorie per 1-0 o per 4-0 (o per 5-1) valgono tutte la stessa cosa, cioè tre punti. Meno banale – per quanto certamente poco sorprendente – è sottolineare come buttare partite nel wc (Sassuolo e ancor più Bologna, due gol avanti, non mi ci fate pensare) abbia un peso letale sui destini e sugli equilibri del campionato. L’Inter ha un punto di vantaggio su una squadra in cui non segna più nessuno e due punti di vantaggio su una squadra che gioca di merda. La quasi sempre bella e divertente Inter di questo inizio di stagione sente sul collo il fiato di due squadre che hanno oggettivamente più problemi di noi. Eppure, sono lì. Vuoi per culo, vuoi per cinismo, ‘sti due cessi non riusciamo a schiodarceli da dietro. Nei momenti clou serve cattiveria. Non distraiamoci a fischiare un marcantonio che fa parte del nostro passato, who cares? Vinciamo le partite, il resto frega un tubo.

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Cambio!

(ANSA)

Sull’effetto dei cambi giusti (o sbagliati) su una partita di calcio potremmo scrivere un’enciclopedia e studiarne all’infinito le dinamiche senza mai arrivare alla formula o all’algoritmo giusto: noi interisti – come un po’ tutti, credo – ne abbiamo viste di tutti i colori nel bene e nel male. Quello di Torino-Inter è un piccolo caso di scuola, quasi banale: dopo un primo tempo di tiki-taka ammorbante, presi nella rete del Toro e privi di quel pizzico di inventiva/voglia in più per provare a uscirne, è apparso a tutti chiaro che solo dopo i cambi avremmo forse visto qualcosa di diverso. E non è un caso che il gol di Thuram sia arrivato 3 minuti dopo l’ingresso in campo di Dumfries e Frattesi, che nel gioco delle rotazioni erano i due pezzi migliori che avevamo in panchina per spezzare gli equilibri dalla metacampo in su.

Ascolta “#9 – Famiglie, triplette e stadi faraonici” su Spreaker.

Se oggi siamo passati da un primo tempo deprimente a un secondo tempo più brillante (e chirurgico negli obiettivi) lo dobbiamo ai cambi e alla panchina lunga. A un certo punto abbiamo messo dentro quel vice-Barella che non abbiamo mai davvero avuto nelle scorse stagioni e quel dirompente e un po’ scomposto incursore che, in una mai dissolta diffidenza generale, sta vivendo un periodo scintillante e sa essere sempre più spesso un giocatore determinante. Metti due giocatori così a giocare gli ultimi 30/40 minuti e spacchi la partita. Certo, magari non va sempre così. Ma in teoria (e oggi, come visto, nella pratica) è una mossa quasi a colpo sicuro.

Inzaghi questo giochino lo organizza con risultati alterni, ma può essere la nostra arma vincente. Abbiamo una rosa completa (a parte l’attacco): dosando le forze e tenendo tutti sotto pressione possiamo sempre avere – anche qui, a rotazione – almeno un paio di mosse a disposizione per sparigliare davvero le partite in corso d’opera. Il nostro allenatore, a differenza di molti colleghi che lo hanno preceduto, può girarsi verso la panchina e pescare sempre un jolly. Ok, certo, Guardiola e Ancelotti e Klopp sono messi un po’ meglio, eh, d’accordo. Ma noi (a parte l’attacco) (due titolari meravigliosi e due vecchie glorie come rincalzi) non ci possiamo lamentare. Non ci dobbiamo lamentare.

L’Inter di Inzaghi ha schemi inderogabili e alcuni giocatori irrinunciabili. Il turn over spinto ci manda in tilt. Ma anche spremere sempre gli stessi non è un metodo sostenibile. Il meccanismo non è facile da far funzionare. Abbiamo qualcuno che deve giocare sempre, qualcuno che vuole giocare sempre, qualcuno che giocherebbe volentieri un po’ di più. Serve una coralità anche nel centellinarsi, nell’alternarsi. No, non è facile. Ma è il terreno su cui Inzaghi può giocare la sfida forse più creativa. E decisiva, chissà.

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Ciclotiminter

Esaurita la premessa fondamentale – i bilanci al 9 di ottobre sono quantomeno prematuri, alla fine della stagione mancano una quarantina di partite, ecc. ecc. -, per aggiungere un mattoncino alla ricerca “Di che pasta è fatta l’Inter 2023/24?” vale la pena fare un raffronto alla stessa data con l’Inter 2022/23.

Se l’Inter quest’anno al 9 di ottobre ha perso una partita su 10 (8 di campionato e 2 di Champions, il bilancio finora è 7-2-1), l’anno scorso ne aveva perse già 5 su 12 (il calendario era più compresso per i noti motivi: 9 di campionato e 3 di Champions, bilancio 7-0-5). Diciamo che se quest’anno si cede a qualche lamentazione, l’anno scorso avremmo dovuto mettere a ferro e fuoco Milano e minacciare un suicidio collettivo dall’ultimo piano del Pirellone.

Ascolta “#6 – Bologna, Richetto e drammi familiari” su Spreaker.

L’analisi dei calendari conduce a qualche ulteriore riflessione. Le cinque sconfitte dello scorso anno furono in ordine cronologico con Lazio, Milan, Bayern, Udinese e Roma. Come tutti ci ricordiamo, si diceva che stavamo fallendo sistematicamente gli scontri diretti (l’Udinese di quel periodo era in zona Champions). Questo al netto del fatto che tra quelle 12 partite e quelle 7 vittorie c’era anche l’1-0 col Barcellona, partita che si rivelerà decisiva per l’intera stagione (e quello era un signor scontro diretto). E che la tredicesima partita stagionale sarebbe stata l’altrettanto decisivo 3-3 al Camp Nou. Insomma, come quest’anno – e come spessissimo nella nostra storia di squadra un po’ pazza – anche l’anno scorso stavamo alternando buonissime partite ad altre pessime. Però, perdendo molto di più. E con modalità praticamente opposte.

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Quest’anno di scontri diretti non ne abbiamo avuti molti, ma in campionato abbiamo dato 5 gol all’attuale capolista e 4 alla terza in classifica, in due delle nostre partite migliori. E nell’altra partita top di questo inizio di stagione, col Benfica, il risultato “vero” sarebbe stato con tre/quattro gol di scarto. Quest’anno, insomma, è lo scontro diretto a farci tirare fuori il meglio. Mentre è abbastanza chiaro che le partite più scontate ci ammorbano: Sassuolo, Bologna, Empoli (pur vinta), Salernitana (il primo tempo moscio)… andando avanti nella stagione, si è allargata la distanza tra i match di cartello e quelli no, come se nei primi fossimo tutti sul pezzo di default e nei secondi un po’ meno. Con Milan, Fiorentina e Benfica ci siamo fermati giusto perché l’arbitro come da regolamento a un certo punto ha detto stop. Con Sassuolo e Bologna – in casa, per giunta – l’abbiamo ritenuta finita in largo anticipo, ci siamo fatti rimontare, abbiamo perso la cattiveria (il secondo gol del Bologna è simbolico) e la concentrazione, abbiamo puntato tutto sull’assalto finale che una volta va bene e cinque no, specie se posteggiano un pullman di traverso (mica sempre ti stendono la passatoia mentre vai in contropiede, eh).

La bellezza di questa Inter, che sta molta (o tutta) in quella attitudine positiva che alla lunga sgretola gli avversari (3 gol nel secondo tempo alla Fiorentina, 3 gol nel secondo tempo al Milan, 4 gol nel secondo tempo alla Salernitana, 5-6 gol che potevamo tranquillamente fare al Benfica in quella meravigliosa mezz’ora di secondo tempo), è sempre in bilico sulle nostre paturnie. Che non sono mai le stesse: il turnover, i cambi, le scelte tecniche hanno avuto un certo effetto, ma anche – ohibò – l’effetto contrario. Non c’è una casistica solida, non ci siamo costruiti una certezza. Se non una – che pure è legata agli umori del momento -: se vogliamo, giochiamo meravigliosamente; se vogliamo, battiamo chiunque.

E questa, proprio questa, non è solo la speranza che nutriamo tutti, ma anche una sensazione piuttosto accentuata. Certo, un po’ bauscia lo siamo nel dna, ma non stiamo parlando di semplici episodi: parliamo della metà almeno delle partite che abbiamo visto finora, e che ci danno una misura attendibile delle potenzialità dell’Inter.

Ora, senza disfattismi, non si possono nascondere anche le potenzialità in negativo di questa squadra. Nelle ultime tre partite a San Siro abbiamo dato 5 pere al Milan e poi abbiamo fatto un punto tra Sassuolo e Bologna, il che non avrebbe una spiegazione logica. L’anno scorso al 9 ottobre eravamo messi peggio, 4 sconfitte in 9 partite di campionato, quindi non mettiamoci un turbante in testa per una bottarella da nulla. Però aver perso 5 punti su 6 con Sassuolo e Bologna ha i suoi estremi di inquietudine. Purtroppo siamo qui a guardare il Milan da dietro: dopo l’umiliazione del derby loro ne hanno vinte 4 su 4 in campionato subendo un gol. E siccome i nostri cugini hanno più culo che anima, mi piacerebbe che la minaccia fosse presa più sul serio: loro ne vincono 4 su 4 nei modi più assurdi, noi facciamo un punto in casa con Sassuolo e Bologna e li legittimiamo a pensare che quel derby da incubo è già passato in cavalleria e che noi buttiamo punti nel cesso che è una meraviglia.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Si sta facendo strada anche un argomento evergreen: chi è il vostro interista di sempre? Ma potete anche fare commenti alla sostituzioni di Inzaghi, alle azioni personali di Sanchez o alle prospettive di Bisseck. Insomma, esprimere verbalmente quel cazzeggio interiore che ci tiene impegnati fin da quando eravamo bambini)

(il podcast, giunto al settimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venitevi a lamentare)

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