
Quello in cui un tennista italiano sarebbe salito ai livelli di classifica di Adriano Panatta (cioè numero 4 del mondo) è un giorno che, come tutti gli appassionati di tennis di una certa età, ho pazientemente atteso per 47 anni. 47 anni, poi puff!, succede davvero, in diretta tv, dalla Cina, in un primo pomeriggio di un giorno feriale. 47 (quarantasette) anni.
Cosa vuol dire aspettare una cosa 47 anni? Beh, un po’ lo sappiamo: quando abbiamo vinto la Champions nel 2010 ne avevamo aspettati 45, quel paio di generazioni in cui i racconti si trasformano inevitabilmente in leggenda, “eh, la Grande Inter”, eh sì. Comunque, contestualizzo. Nella magica estate del 1976, quando Panatta vinceva uno dopo l’altro i tornei di Roma (30 maggio) e di Parigi (13 giugno) (e a dicembre avrebbe vinto anche la Coppa Davis, quella vera, non questa robaccia ridicola di oggi, un insulto al tennis e alle nostre intelligenze), io mi godevo le vacanze tra la seconda e la terza media e l’Inter era appena arrivata quarta nello storico campionato vinto dal Torino. Un’estate densa. Su Seveso stava per calare la nube tossica della diossina, Gimondi vinceva il Giro, Van Impe vinceva il Tour, Borg stava per vincere il suo primo di cinque Wimbledon consecutivi, a Montreal si aprivano le Olimpiadi boicottate da 28 paesi africani, Lauda rischiava di morire bruciato al Nurburgring, Fraizzoli vendeva Boninsegna alla Juve.
E io alternavo estenuanti partite di pallone a lezioni di tennis sui campi di terra rossa dove spargevo gesti armonici e, al solito, poca cattiveria agonistica (bello da vedere, facile da sconfiggere). Il mio modello, come quello di migliaia di tennisti in erba che prendevano lezioni sui campi di terra rossa
(Proust aveva quello delle madeleine immerse nel tè di tiglio, io ho il ricordo visivo e tattile dei calzini corti di spugna, che da bianchi diventavano rossi e ruvidi, quasi solidi)
era Adriano Panatta, una specie di semidio, bellissimo, alto, altero eppure popolano, un’abbondante spruzzata di indolenza romana su un talento cristallino e infinito, idolatrato dalle donne e dai tennisti in cerca di ispirazione, un campione vero, trasversale a tutti gli sport, quelle stelle comete che passano una volta ogni tot. Panatta, all’epoca 26enne, fu numero 4 al mondo in una stagione in cui se la doveva vedere con Borg, Connors, Vilas, Gerulaitis, Nastase, Orantes, ‘sta gente qui. Nella sua seconda stagione d’oro, il 1978, alla concorrenza si era già aggiunto McEnroe.

Jannik Sinner, 22 anni, 47 dopo Panatta si è issato al numero 4 del mondo. I primi tre – Djokovic, Alcaraz, Medvedev – sono parecchio più su nel punteggio Atp – parecchio -, ma quello che ha fatto è comunque straordinariamente significativo: è oggi il primo dei tennisti top ma non toppissimi, e comunque per vincere il torneo di Pechino ha battuto due dei tre che lo precedono, trasformando un trofeo Atp 500 (nè carne nè pesce) in un’impresa vera, molto più preziosa del Master 1000 che ha vinto qualche settimana fa. Ha battuto non solo Alcaraz, di cui è una specie di bestia nera (e con il quale fa sempre dei partitoni, comunque vada), ma anche Medvedev, con cui aveva perso 6 volte su 6, sfatando finalmente una costante negativa della sua carriera: quella di fare quasi sempre 30 e quasi mai 31, perdendo sistematicamente – a parte con Alcaraz, un simpatico mistero sportivo – con i toppissimi e, in generale, con quelli sopra di lui in classifica, andando a sbattere sempre sullo stesso muro.
In tutto questo, Sinner ha solo 22 anni, 4 in meno di quel Panatta. Oddio, Alcaraz (e anche Rune, che è al suo livello) ne ha due di meno, ma 22 sono comunque pochi. Ha un’autostrada davanti: che non percorrerà da solo, per carità, ma ora sappiamo che ha il piede pesante per farsi largo. Sinner ha molte doti tra cui anche il culo: non solo per quei tabelloni facili che spesso si trova ad affrontare (finalmente, a Pechino ha potuto dimostrare di saper vincere anche senza culo), ma perchè gli capita in sorte un momento di trapasso generazionale del tennis. Ha smesso Federer e ha praticamente smesso anche Nadal, il tuttora dominante Djokovic ne ha 36 e mezzo (cioè 14 più di Sinner e 16 più di Alcaraz) e prima o poi si arrenderà. No, intendo dire che a un Murray o a un Wawrinka è andata molto peggio, costretti a raccattare le briciole che lasciavano ogni tanto quei tre mostri nel pieno delle forze. Sinner, e Alcaraz su tutti gli altri, possono invece passare all’incasso nei prossimi 10 anni, giocandosela tra di loro in un tennis che sarà un po’ meno inaccessibile.
Vabbe’, ma veniamo al punto. Chi è più forte tra Panatta e Sinner?
E’ la solita domanda impossibile, che ti costringe a paragonare due atleti a 50 anni di distanza, con attrezzi diversi, allenamenti diversi, campi diversi, pressioni diverse eccetera eccetera. Quel tipo di domanda a cui ci si sforza di rispondere sapendo comunque di muoversi sul filo dei sentimenti, delle opinioni e anche un po’ dell’assurdo. Augurando un decennio di successi a Sinner (che mi piace, ma Musetti mi piace molto di più: solo che per lui, per certi versi così panattiano, è più difficile), e considerando alla sua portata l’impresa di entrare presto nei primi tre (e quindi di diventare il tennista italiano con la miglior classifica di tutti i tempi) mi aggrappo a quello che è stato Panatta in quel 1976: quando Sinner vincerà in sei mesi il più importante torneo italiano, uno Slam e la Coppa Davis vera, sarò il primo a fargli tutti i miei complimenti. Anche se dalle pareti della mia cameretta il poster di Adriano non lo staccherò mai.