Memoria di Adriano

Quello in cui un tennista italiano sarebbe salito ai livelli di classifica di Adriano Panatta (cioè numero 4 del mondo) è un giorno che, come tutti gli appassionati di tennis di una certa età, ho pazientemente atteso per 47 anni. 47 anni, poi puff!, succede davvero, in diretta tv, dalla Cina, in un primo pomeriggio di un giorno feriale. 47 (quarantasette) anni.

Cosa vuol dire aspettare una cosa 47 anni? Beh, un po’ lo sappiamo: quando abbiamo vinto la Champions nel 2010 ne avevamo aspettati 45, quel paio di generazioni in cui i racconti si trasformano inevitabilmente in leggenda, “eh, la Grande Inter”, eh sì. Comunque, contestualizzo. Nella magica estate del 1976, quando Panatta vinceva uno dopo l’altro i tornei di Roma (30 maggio) e di Parigi (13 giugno) (e a dicembre avrebbe vinto anche la Coppa Davis, quella vera, non questa robaccia ridicola di oggi, un insulto al tennis e alle nostre intelligenze), io mi godevo le vacanze tra la seconda e la terza media e l’Inter era appena arrivata quarta nello storico campionato vinto dal Torino. Un’estate densa. Su Seveso stava per calare la nube tossica della diossina, Gimondi vinceva il Giro, Van Impe vinceva il Tour, Borg stava per vincere il suo primo di cinque Wimbledon consecutivi, a Montreal si aprivano le Olimpiadi boicottate da 28 paesi africani, Lauda rischiava di morire bruciato al Nurburgring, Fraizzoli vendeva Boninsegna alla Juve.

E io alternavo estenuanti partite di pallone a lezioni di tennis sui campi di terra rossa dove spargevo gesti armonici e, al solito, poca cattiveria agonistica (bello da vedere, facile da sconfiggere). Il mio modello, come quello di migliaia di tennisti in erba che prendevano lezioni sui campi di terra rossa

(Proust aveva quello delle madeleine immerse nel tè di tiglio, io ho il ricordo visivo e tattile dei calzini corti di spugna, che da bianchi diventavano rossi e ruvidi, quasi solidi)

era Adriano Panatta, una specie di semidio, bellissimo, alto, altero eppure popolano, un’abbondante spruzzata di indolenza romana su un talento cristallino e infinito, idolatrato dalle donne e dai tennisti in cerca di ispirazione, un campione vero, trasversale a tutti gli sport, quelle stelle comete che passano una volta ogni tot. Panatta, all’epoca 26enne, fu numero 4 al mondo in una stagione in cui se la doveva vedere con Borg, Connors, Vilas, Gerulaitis, Nastase, Orantes, ‘sta gente qui. Nella sua seconda stagione d’oro, il 1978, alla concorrenza si era già aggiunto McEnroe.

Jannik Sinner, 22 anni, 47 dopo Panatta si è issato al numero 4 del mondo. I primi tre – Djokovic, Alcaraz, Medvedev – sono parecchio più su nel punteggio Atp – parecchio -, ma quello che ha fatto è comunque straordinariamente significativo: è oggi il primo dei tennisti top ma non toppissimi, e comunque per vincere il torneo di Pechino ha battuto due dei tre che lo precedono, trasformando un trofeo Atp 500 (nè carne nè pesce) in un’impresa vera, molto più preziosa del Master 1000 che ha vinto qualche settimana fa. Ha battuto non solo Alcaraz, di cui è una specie di bestia nera (e con il quale fa sempre dei partitoni, comunque vada), ma anche Medvedev, con cui aveva perso 6 volte su 6, sfatando finalmente una costante negativa della sua carriera: quella di fare quasi sempre 30 e quasi mai 31, perdendo sistematicamente – a parte con Alcaraz, un simpatico mistero sportivo – con i toppissimi e, in generale, con quelli sopra di lui in classifica, andando a sbattere sempre sullo stesso muro.

In tutto questo, Sinner ha solo 22 anni, 4 in meno di quel Panatta. Oddio, Alcaraz (e anche Rune, che è al suo livello) ne ha due di meno, ma 22 sono comunque pochi. Ha un’autostrada davanti: che non percorrerà da solo, per carità, ma ora sappiamo che ha il piede pesante per farsi largo. Sinner ha molte doti tra cui anche il culo: non solo per quei tabelloni facili che spesso si trova ad affrontare (finalmente, a Pechino ha potuto dimostrare di saper vincere anche senza culo), ma perchè gli capita in sorte un momento di trapasso generazionale del tennis. Ha smesso Federer e ha praticamente smesso anche Nadal, il tuttora dominante Djokovic ne ha 36 e mezzo (cioè 14 più di Sinner e 16 più di Alcaraz) e prima o poi si arrenderà. No, intendo dire che a un Murray o a un Wawrinka è andata molto peggio, costretti a raccattare le briciole che lasciavano ogni tanto quei tre mostri nel pieno delle forze. Sinner, e Alcaraz su tutti gli altri, possono invece passare all’incasso nei prossimi 10 anni, giocandosela tra di loro in un tennis che sarà un po’ meno inaccessibile.

Vabbe’, ma veniamo al punto. Chi è più forte tra Panatta e Sinner?

E’ la solita domanda impossibile, che ti costringe a paragonare due atleti a 50 anni di distanza, con attrezzi diversi, allenamenti diversi, campi diversi, pressioni diverse eccetera eccetera. Quel tipo di domanda a cui ci si sforza di rispondere sapendo comunque di muoversi sul filo dei sentimenti, delle opinioni e anche un po’ dell’assurdo. Augurando un decennio di successi a Sinner (che mi piace, ma Musetti mi piace molto di più: solo che per lui, per certi versi così panattiano, è più difficile), e considerando alla sua portata l’impresa di entrare presto nei primi tre (e quindi di diventare il tennista italiano con la miglior classifica di tutti i tempi) mi aggrappo a quello che è stato Panatta in quel 1976: quando Sinner vincerà in sei mesi il più importante torneo italiano, uno Slam e la Coppa Davis vera, sarò il primo a fargli tutti i miei complimenti. Anche se dalle pareti della mia cameretta il poster di Adriano non lo staccherò mai.

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A grande beleza

E quindi siamo qui a parlare di una vittoria per 1-0 come fosse un 5-0 o forse anche un 50-0, ancora con gli occhi pieni dell’Inter del secondo tempo e della sua mezz’ora da paradiso del calcio, l’1-0 più stretto della storia, il duello senza senso tra Lautaro e Trubin e quello tra Lautaro e i pali, la fatica di trovare il migliore in campo in una squadra che a un certo punto imperversava così compatta che boh, siamo tutti un po’ confusi da tutto ‘sto bendiddio.

Anche perché vorresti che una partita così non finisse mai, e al contempo che finisca quanto prima, perchè quando fallisci 73 volte il gol della sicurezza si alza forte il vento della potenziale beffa, quello che all’Alfama chiamano enculadinha, che per fortuna – e giustizia divina – non si è concretizzata.

Ascolta “#5 – Pali, traverse, traversie e mutande costose” su Spreaker.

A San Sebastian era stata un’Inter in edizione dimessa, grata alla fortuna per aver portato a casa un punto che quasi non meritavamo. A Milano col Benfica meritavamo 6 punti e 12 gol e accontentiamoci di aver visto una squadra che quando vuole può farci sognare davvero. Se qualcuno in giro per l’Europa stasera ha visto il secondo tempo di Inter-Benfica, avrà notato che la squadra che quattro mesi fa ha giocato la finale di Champions non è proprio una meteora e nemmeno un club che ha solo culo.

Io lo so – tutti noi sappiamo – che chiedere la replica di ‘sta magnificenza è un po’ eccessivo, e che sperare di rivedere questa stessa Inter in altri campi e altre situazioni è un po’ aleatorio. Ma serate come questa servono a dimostrare che ci siamo, che certe partite le sappiamo fare, che la squadra ha le sue belle potenzialità. Grazie Inter, adesso mi prendo 15-20 minuti per rivedere gli highlight più densi che ci potevamo immaginare dopo un primo tempo un po’ sminchio. Ma le partite vanno così: a volte si cambia marcia e non ce n’è per nessuno.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che attendo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. L’Inter vi è piaciuta? L’Inter non vi è piaciuta – cioè siete pazzi -? Noi rispondiamo a tutto: on topic, off topic, total topic, ti-tic-e-ti-topic)

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Toro Toro Toro Toro

Vincere 4-0 in trasferta e andare a dormire molto preoccupati si può, ed è una cosa molto interista. La colpa è tutta di Lautaro.

Allora, parliamoci chiaro (gli uomini che stanno leggendo, all together, si tocchino i coglioni. Le donne non so, ma adesso non starei qui a inoltrarmi in un pippone gender): l’Inter senza Lautaro e l’Inter con Lautaro sono due Inter molto diverse, molto. Questo inizio di stagione lo dimostra in termini quasi drammatici. Ha segnato 10 dei nostri 20 gol. Se non gioca bene (Empoli, Sassuolo) facciamo una gran fatica o perdiamo. Se non incide (Real Sociedad) stiamo sotto, poi gli capita un pallone in 90 minuti (Real Sociedad) e la riprendiamo.

Veniamo a Salerno, dove facciamo un primo tempo simil-Sassuolo (10 tiri, uno nello specchio) e non usciamo dalla palude. Poi togliamo Ehi Amigo, un giocatore un po’ anemico, mettiamo il Toro al minuto 54′ (cambio anticipato di 10-15 minuti rispetto al solito: metterlo era una necessità assoluta, inderogabile, improcrastinabile) e lui ne fa quattro, stabilendo un record storico (primo giocatore subentrato a segnare 4 gol) e gettandoci nel più cupo imbarazzo: sì, insomma, senza Lautaro noi come faremmo?

Ascolta “#4 – Il Grande Lebowski, spartiacque e avvocati” su Spreaker.

(Uomini, touch your balls) Insomma, affrontiamo l’argomento: se a Lautaro viene il mal di pancia, l’influenza, il ginocchio della lavandaia, il gomito del tennista, noi come facciamo?

Mi sono beccato del mezzo piangina quando ho buttato lì la cosa alla fine di Empoli-Inter, quando il 25% del nostro reparto d’attacco è andato in frantumi al primo cambio di direzione. Considerando che l’altro 25% over 34 per adesso non è che brilli di luce propria, come gestiamo i due splendidi 26enni che costituiscono la coppia titolare, considerando che Lautaro fa metà dei nostri gol ed è la nostra star? I primi 40 giorni della stagione se ne sono andati così – bene, senz’altro – ma poi? Come la gestiamo ‘sta cosa?

Che Iddio ce lo conservi in salute, garra e interismo. La società gli assicuri muscoli, ossa e articolazioni. Gli altri tengano il suo passo e prendano meglio la mira. Siamo primi e contemporaneamente sul filo di una dipendenza pericolosa. Speriamo almeno nello spirito di emulazione. Noi vogliamo undici Lautari.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che attendo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Noi rispondiamo a tutto: on topic, off topic, cazz topic, total topic)

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I malmostosi

Al primo esame contemporaneamente fisico (quarta partita in 12 giorni) e psicopatologico (Sassuolo, solo 2 volte nelle ultime 9 – ora 10 – sconfitto a San Siro) l’Inter è franata piuttosto miseramente. E, al contempo, in maniera piuttosto spettacolare. Nel senso che in soli 90 minuti è riuscita a organizzare un passo indietro univoco e generale, su tutti i singoli comparti/uomini/schemi/criticità, da consentire a tutti noi di preoccuparci improvvisamente un casino. Al netto del fatto che quando arriva il Sassuolo ormai tutti cediamo a una sorta di rassegnazione che, forse, aleggia anche ad Appiano con congruo anticipo (non è un grandissimo atteggiamento, ecco).

Le statistiche ci aiutano molto a districarci in questo marasma. Il primo dato a inchiodarci è quello del possesso palla, di cui nel magico inizio di stagione ci eravamo bellamente fottuti – anzi, era tutto un “muahahahahah, tenetevela pure ‘sta palla” – e che ieri sera ci ha ben fotografati con un 63% speso soprattutto a fare quel ti-tic e ti-toc di cui ci eravamo dimenticati. Anche il dato dei cross è suggestivo: 23-9 per noi in una partita finita 1-2 per loro. Non c’è il dato dei non-tiri sui cross, ma sarebbe terribilmente elevato.

Proprio i non-tiri (oh, manco sfiorata la palla) su cross molto invitanti a cinque metri dalla porta alla fine hanno fatto la differenza: potevamo chiudere nel primo tempo e invece no, abbiamo perso meritatamente. E quei non-tiri per questione di centimetri sono la statistica-ombra più impietosa. Tutta la spensierata cattiveria che ci abbiamo sempre messo in zona gol almeno fino al derby si è già trasformata in un’altra cosa. E cioè in quella supponenza – tranqui, tifosotti, prima o poi la mettiamo, fidatevi, tzè – a cui nel recente passato ci siamo spesso abbandonati con risultati drammatici.

Ci sta che giocare 4 volte in 12 giorni (tra cui un derby e una trasferta duretta di Champions) comporti qualche ripercussione fisica. Ci sta meno che la gestione del turnover sia un pochino improvvisata (o forse siamo noi che non capiamo un cazzo, ovvio), con qualche giocatore già spremuto senza che ce ne fosse un reale bisogno, con qualcun altro centellinato e con qualcun altro ancora cui il termine turnover provoca eruzioni cutanee e sbalzi di umore. Ci sta anche che tra i più spremuti ci sia Lautaro, che non è uno che si risparmia. Ci sta meno che in attacco, parlando di turnover e di gestione delle forze, siamo già alla canna del gas.

E io che mi ero tanto speso a sottolineare come l’Inter di questo inizio di stagione comunicasse con naturalezza la sua voglia di giocare – di giocare bene -, mi trovo già in braghe di tela concettuali dopo un’Inter-Sassuolo in cui non siamo stati sufficientemente cattivi per allungare la gamba di un centimetro di più, in cui non siamo stati sufficientemente sereni per fare cinque passaggetti indietro di meno e uno avanti in più, e in cui è bastata la nostra bestiolina nera a farci perdere di brutto il controllo delle operazioni.

Peraltro, non è un mondo possibile quallo in cui le vinci tutte facendo contropiedi meravigliosi. Il mondo vero è un girone infernale in cui hai Milan, Juve e Sassuolo appesi con i denti al tuo scroto. Questo è meglio ricordarselo tutti, dai malmostosi fino a Inzaghi.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che se volete lamentarvi – di qualsiasi cosa, anche se sull’Inter siamo più preparati – attendo i vostri vocali al numero Whatsapp 351 351 2355. Se invece siete più propositivi, attendo i vostri vocali al numero Whatsapp 351 351 2355)

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Geriatria canaglia

A parte il veloce e temporaneo affaticamento muscolare del turco (che a 29 anni e mezzo è ancora un ragazzino), i primi acciacchi/problemi stagionali dei giocatori dell’Inter – e non siamo ancora arrivati nemmeno alla fine di settembre – hanno riguardato molti dei nostri Grandi Anziani. Sanchez in Cile l’hanno trovato un po’ sbattuto (anemia, ma sembrerebbe essersi rimesso in bolla), Cuadrado ha male al tendine e ora ad Arnautovic è saltato il primo muscolo 2023/24.

Se la questione in generale la possiamo definire meno che sorprendente (gli anziani sono sempre pieni di malanni) (io per esempio ho la sinusite a mesi alterni), mi piacerebbe sapere se all’Inter pensavano seriamente di sfangarla con un reparto attaccanti composto da quattro giocatori, due dei quali 34enni e piuttosto usurati. Al 25 settembre abbiamo già il primo lungodegente (Arna starà fuori due mesi, forse) (il geriatra lo rivaluterà a inizio novembre) e quindi la panchina degli attaccanti si è già ridotta del 50 per cento: l’unica riserva dei due splendidi 26enni è un 34enne anemico e permaloso.

Ascolta "#2 - Empoli, meme, eros, io vorrei non vorrei ma se vuoi" su Spreaker.

Mentre da fuori ci dicono che in Italia abbiamo la rosa migliore di tutti e noi un po’ ce ne convinciamo, la realtà è che ci sono delle magnificenze e delle criticità. Tra le prime, spicca una fascia destra (Dumfries, Cuadrado, Pavard, Darmian) che non ce l’ha manco il City, seguita da un centrocampo piuttosto extralusso, diciamolo, nonostante la cessione di Gagliardini. Tra le seconde, spicca l’attacco. E dove si concentrano gli infortuni? Eh, indovina.

La cosa sta generando una situazione piuttosto divertente, perchè è partito il toto-quarto attaccante. Soluzione svincolato (smentita, pare, dalla società): spiccano i nomi del Papu Gomez (diciamo non proprio la controfigura fisica di Arna), Stefano Okaka (34 anni, età che porta male), Fabio Quagliarella (40), Felipe Caicedo (abbiamo già dato, comunque ne fa 35) e Simone Zaza (32). C’è anche un’ipotesi Emilio Butragueño (60), ma sembra piuttosto fantasiosa.

Poi ci sono due soluzioni interne. La prima: usare alla bisogna Mkhitaryan (oh, 34), Klaassen o Frattesi in attacco, visto che hanno una certa propensione naturale a centrare la porta. La seconda: coprire il buco con un Primavera, nel caso specifico Amadou Sarr, classe 2004.

Sarà che sono anziano (ho anche la spina calcaneare), ma l’ipotesi Sarr mi riporta indietro di molti e molti anni, quando le rose delle squadre arrivavano max a 16-18 giocatori e se un reparto andava in crisi si pescava davvero nella Primavera e si davano chance a ragazzi che oggi manco se le possono sognare. Da bambino ho assistito a San Siro ai debutti di attaccanti sconosciuti: Cesati (gol all’esordio), Serena (gol all’esordio), Chierico (niente gol, ma un testone di riccioli rossi che spiccava sulla fascia), per non dire del mio amico Cerilli, non all’esordio ma quasi, Mvp di un’Inter-Lazio da leccarsi i baffi. Emozioni forti, semplici, belle.

L’opzione Sarr, in combinazione con l’opzione “nel frattempo metto uno che magari tira in porta”, consentirebbe al nostro amico del 2004 di fare esperienza con la prima squadra, cioè accomodarsi in panchina, vedere la partita gratis e sperare in quello 0,1% di probabilità che Inzaghi gli faccia giocare 5 minuti. Oh, magari mi sbaglio (e ne sarò contento). Ma il calcio non è un paese per i troppo giovani, e l’Inter ancora meno.

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La Sociedad degli accentuoni

Allora, sostanzialmente paghiamo due equivoci.

Equivoco numero 1. In albergo, Simone Inzaghi per portarsi avanti e distrarsi un po’ prepara anche la distinta per la partita di Empoli. Ok, il turco non sta bene, oggi faccio un turn over ridotto, è la prima di Champions, meglio andare sul sicuro. Domenica a Empoli, invece, ne cambio almeno quattro. Fa due conti, scrive le due formazioni. Poi va allo stadio, dà la distinta a Farris che la porta all’arbitro. Mentre gliela dà, Farris legge “Empoli-Inter”. O cazzo. “Ops! Could you…”. L’arbitro Oliver dice: “What’s Empoli?”. Farris dice: “Minchia, i’m sorry, have you a biro?”. Cancella Empoli, ma la formazione è ormai quella. Quando torna negli spogliatoi, trova Inzaghi che sta mangiando la distinta giusta.

Equivoco numero 2. Sommer, a partita appena iniziata, viene pressato e deve rinviare in fretta con i piedi. Alza gli occhi e vede delle maglie bianche un po’ a righe e delle maglie arancioni. “Ma che cazz…”. Va anche capito, è appena arrivato. Vestire la squadra come gli ultras di Verstappen non è stata una grandissima idea. Poi Bastoni ci ha messo del suo, “ok, li dribblo tutti e…”. Anche questo, in fondo, un equivoco.

Tutto ciò nei primi quattro minuti: ha ragione Pioli, all’inizio facciamo cagare. Poi, però, per smentire Pioli, facciamo cagare anche per un’altra oretta. I baschi fanno un partitone (due traverse, un miracolo di Sommer, l’uomo che ha scambiato i guanti con Gianni Morandi), grande corsa e grande garra, oltre che una grande propensione ad accentuare e simulare che me li rendono insopportabile quanto, per dire, una Roma o una Juve.

Poi vabbe’, anche Jakob Ingebrigtsen se va troppo forte nei primi giri alla fine non riesce a sprintare. E la geniale mossa di Inzaghi – tolgo i peggiori, metto i più forti che ho – consente all’Inter di tornare a vedere la luce mentre i baschi vanno progressivamente in debito d’ossigeno. Fino a che Lautaro (pensavo l’avesse lui l’anemia, non Sanchez) dopo una partita anonima si dimostra il campione che è trasformando in gol l’unico pallone che arriva dalle sue parti. Se ne sarebbe meritato uno anche Thuram, che tra i moribondi della Sociedad sembrava Haaland in un’ipotetica amichevole Pavia-City. Ma va bene così, visto che sarebbe potuto andare ben peggio.

Squadra stanca? Boh, dopo aver dato il peggio, il meglio l’ha dato alla fine. Buon risultato? Boh, avrei detto di sì, ma non so come giudicare la situazione alla luce del fatto che il Salisburgo ha vinto a Lisbona. Quindi il mio commento finale è boh. *

*) se il vostro commento non è boh, cioè se avete qualcosa da dire di più significativo, fatelo con un vocale al 351 351 2355, che così ci faccio un podcast.


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Piolology

Mi piacerebbe fare un sondaggio tra i tifosi del Milan e chiedere cosa pensano di Pioli. Per essere più precisi: cosa pensano di Pioli e di quello che dice. Di come e cosa comunica. E’ una curiosità che mi vorrei togliere, come dire?, da persona informata sui fatti. Nel senso che anch’io la scorsa stagione – una stagione che culminerà con un’incredibile finale di Champions e due trofei vinti, ma passata attraverso 12 sconfitte su 38 partite di campionato – ho avuto problemi di compatibilità intellettuale con il mio allenatore, e credo che come me ce li abbiano avuti anche un tot di altri interisti. E se mi avessero fatto partecipare a un analogo sondaggio, in certi momenti avrei messo il pollice verso. Era il periodo delle supercazzole del postpartita che ti facevano dubitare fortemente di lui, se ci era o ci faceva. Il periodo di “se avessimo segnato noi adesso staremmo parlando di un’altra partita”, o di “se avesse segnato due gol, adesso tutti parleremmo di un grande Lukaku”. Dichiarazioni pronunciate, savasandìr, dopo partite perse senza magari un tiro in porta, o dopo partite inguardabili di Big Rom in cui la palla più che altro gli rimbalzava contro. Del resto, se tutti i nostri nonni avessere avuto le ruote sarebbero stati delle gran carriole.

Simone Inzaghi non è un grande oratore, questo è notorio, e va anche detto che parlare dopo una sconfitta è più difficile che buttare lì quattro frasette in croce dopo una vittoria, un bel sorrisone e via verso il pullman. Diciamo che il nostro mister ha tanti pregi, ma non certo quello dell’affabulazione. Un’arte in cui Pioli, per esempio, eccelle di più, con quelle sue interviste condotte con uno sguardo a metà tra papa Giovanni XXIII e George Clooney, con un fare suadente che lo prenderesti a pomodorate e con un ampio ricorso a una retorica laico-pretesca che vuole fare apparire il Milan come un metaverso in cui tutto converge verso il Bene, un ambiente così positivo che al confronto i boy scout sono le Bestie di Satana. Il che lo rende, oggettivamente, un personaggio parecchio irritante.

Detto tutto questo, che problema ha Pioli (anche da ex allenatore dell’Inter, anche da ex interista – così almeno raccontava)? Che problema ha, dopo aver preso 5 pere nel quinto derby perso in un anno solare (nove mesi scarsi tra il primo e l’ultimo, praticamente uno ogni 50 giorni), 12 gol subiti e uno fatto, a dire “beh, faccio i complimenti all’Inter, oggi sono stati più bravi di noi” non dico proprio tutte le volte (capisco che lo manderebbero affanculo in curva sud) ma almeno nell’ultima, dopo 5 pere e 5 partite in cui non ne hai azzeccata una manco per sbaglio?

La frasetta di cui sopra, detta magari a denti stretti e controvoglia, avrebbe due effetti pratici: intanto, ti renderebbe più umano – inteso: con i due piedi piantati sul pianeta Terra -; secondo, sarebbe la premessa ideale a successive dichiarazioni modello “gioco delle parti”, in cui avendo appunto ammesso che l’avversario è stato meglio di te (beh, figa, non mi sembra una grande forzatura: te ne ha fatti 5) (cinque), puoi proseguire sereno nel solco di questa attenuante-aggravante (riconoscere la superiorità del competitor è un’arma dialetticamente a doppio taglio) (ma ne hai appena presi 5, è già tanto che ti fanno parlare) dicendo il cavolo che vuoi, facendo tutti i distinguo che vuoi, prendendoti tutte le scuse che vuoi. Perché sei partito dicendo che gli altri hanno vinto perché sono stati meglio di te e questa è una disamina spietata ma sincera, e la sincerità si apprezza.

Dai milanisti vorrei sapere se sono contenti, per esempio, di averci tenuto lontani dalla loro area per i primi 7 minuti della semifinale d’andata di Champions (solo per miracolo finita solo 0-2 per noi, potevamo fargliene 4 dal 7′ in poi del solo primo tempo rimediando alla presunta bambola dei 7′ iniziali). O se sono contenti di avere dominato in lungo in largo ieri i primi 4 minuti, deconcentrandosi un ciccinino nei successivi 86′, certo, può capitare. Sono contenti, così come sottolinea il mister, di avere fatto il 60% del possesso palla, una statistica ingiustamente non premiata con dei gol-bonus, e di averne ingiustamente presi 5 nei rari momenti di non possesso? Sono contenti di sentire dire al loro allenatore che l’Inter ha vinto il derby perché é stata più furba? Vinci una partita 5-1 per furbizia? Cosa è successo, che Mkhitaryan prima di segnare ha indicato il primo rosso a Maignan e gli ha detto “ehi, hai visto che c’è Margot Robbie?” o che Frattesi ha rotto una fialetta puzzolente sulla trequarti e nello sconcerto generale si è infilato in spaccata?

Il percorso logico di Pioli, parlando di dinamiche sportive (tipo la pratica del fair play) (sì, lo so, sono un sognatore), è devastante. Perché non solo non sottolinea nemmeno così, en passant, i meriti di un avversario che ti ha appena sconfitto 5-1. Ma anche perché nemmeno si sofferma abbastanza sui demeriti della sua squadra che ha preso 5 pere, demeriti che sono anche suoi, o forse soprattutto i suoi. Massì, diciamo che nei primi 4 minuti eravamo in campo solo noi (nei successivi 86′, che scorrettezza!, che cafonaggine!, hanno giocato anche gli altri). Massì, diciamo che gli altri sono stati più furbi (più furbi, santiddio, te ne hanno fatti 5 e la butti in vacca così). D’altronde poi ammette che, a proposito di furbate, “ci hanno aspettato e un pochettino me lo aspettavo”: beh, Pioli, se te lo aspettavi e ti sei fatto mangiare vivo in ripartenza un tot di volte, allora qualche problema lo hai e, come diceva il Sommo, la risposta è dentro di te epperò è sbagliata.

Quando ti hanno chiesto se avreste dovuto chiedere scusa ai tifosi per la partita, hai detto no – “cosa credete, che ci abbia fatto piacere perdere 5-1?” – e un po’ ti do ragione. Diciamo che la domanda andrebbe un pochino perfezionata: io, per esempio, ti chiederei se non senti mai l’esigenza di scusarti con i tuoi tifosi per le cose che dichiari a fine partita, tipo quando giochi con l’Inter e – perseverare è diabolico – non ammetti la sconfitta cinque volte su cinque.

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Gimme five

D’accordo, nei primi tre-quattro minuti facciamo cagare, subiamo l’iniziativa altrui, non ci facciamo vedere nell’area avversaria. Non voglio drammatizzare, ma non è un bel vedere. Sono quei tre-quattro che determinano l’imprinting del tifosotto medio, che sta ancora stappando la sua Peroni ghiacciata mentre assiste a questo monologo rossonero e dice tra sè e sè: “Minchia oh, a saperlo mi giocavo un centone alla Snai su possesso palla primi 5 minuti Under”. Ecco, cioè, io non voglio insegnare niente a nessuno, tantomeno a Simone Inzaghi, ma su questo bisognerà un pochino lavorarci. L’abulia dei primi tre-quattro minuti un giorno potrebbe costarci cara. Metti che incocci in una squadra che nei primi tre-quattro minuti dà tutto – e non, come ha fatto spocchiosamente il Milan, ci risparmia – e succede il patatrac. Meglio non giocare troppo con il destino.

No, perchè negli 86 minuti (più recupero) successivi, indubbiamente, va meglio. Anzi, diciamolo: come giochiamo fottutamente bene nei restanti 86 minuti (più recupero)?

Un 5-1 in un derby è talmente bello da diventare un po’ malinconico. Perché alla fine, dopo avere rivisto gli highlights allo sfinimento, ti chiedi: vedrò mai più un simile bendiddio?

Oddio, diciamo che i derby stanno diventando una specie di pacchia, la comfort zone che non ti saresti mai aspettato. Ne abbiamo vinti 13 degli ultimi 22, e già questa sarebbe una statistica significativa. Ma in questo magico 2023 il bilancio è di 5 a zero, 5 derby giocati in tre competizioni diverse e vinti tutti, uno meglio dell’altro e forse quest’ultimo meglio di tutti, perchè gliene hai messi cinque e tutti belli, bellissimi, con momenti di futbol bailado.

Dopo sole quattro giornate di campionato tocca ripetersi, ma lo si fa volentieri. C’è una grande voglia dietro i gol dell’Inter, quasi tutti frutto di ripartenze fulminee o di palle riconquistate, di azioni insistite, di occasioni colte perchè fortemente volute. Non c’è quasi mai il ruolo del caso. C’è solo voglia. E – fatto ancora più esaltante – una voglia non solo individuale, ma corale. I gol sono belli, ma le azioni che li precedono – passaggi, tagli, sovrapposizioni – e li determinano lo sono anche di più. L’Inter ragiona, vive e si esprime da squadra.

I partitoni clamorosi (gol e assist) di Mkhitaryan e Thuram, il contorno di tutto il resto (con la ciliegina di Frattesi che partecipa alla festa da protagonista), gli abbracci, i sorrisi (anche di chi è uscito con il broncio, ma gli è durato poco), la rete del Milan che si gonfia cinque volte (e in un anno il totale fa 12-1): meraviglioso.

Ed eccola, la malinconia, come dopo un tramonto spettacolare, un arcobaleno, una finale di Champions persa dalla Juve: eh, appunto, ne vedrò ancora? Sarà tutto ancora così bello? Boh, adesso non vorrei spendere troppe energie mentali e spirituali, considerando che potrebbe darsi che da tutta questa ammuina di gol, punti e sentimenti potrebbe uscire qualche spunto per il podcast. Forza Inter, i miei omaggi alla capolista solitaria.

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Podcast

Sto per fare una cosa superiore alle mie possibilità, frutto più che altro di un gigantesco equivoco. E’ giusto che ve ne renda partecipi, anche perchè potrete (dovrete) (potreste, dovreste) fare la vostra parte. Segnatevi questo numero: 351 351 2355. Non avete capito niente? Tranquilli, nemmeno io.

Provo allora a ricapitolare. Dunque, un mio amico (uno che non se la tira, ma è un creativo della comunicazione che Marshal McLuhan al confronto è Gigi Marzullo) un giorno mi scrive: basta cazzeggiare, ho un progetto che ti riguarda (uhm, quelle frasette che hanno sempre un che di sinistro, un sottinteso sospetto, gli spagnoli la chiamano enculada). E io gli rispondo: vabbe’, vieni a prendere un caffè a casa mia, devo smaltire quelle due-trecento capsule di Istanbul.

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Il mio amico si presenta con la sua cagnolina. Anch’io ho una cagnolina. La sua è una Jack Russell. La mia una buldogghina francese. Praticamente alte uguali, ma viste una a fianco all’altra sembrano una marciatrice messicana e una lanciatrice del disco bulgara. Mentre le due giocano (più che altro gioca la sua: la mia si prende lunghe pause sociopatiche sotto il divano, evitando ogni tipo di confronto), noi conversiamo amabilmente per circa due ore. La prima ora e 50 minuti circa la dedichiamo alle varie ed eventuali: vacanze, caro vita, Inter, prospettive a breve termine dell’Inter, prospettive a lungo termine dell’Inter, ricordi legati all’Inter, amore per l’Inter, la galassia Inter, riflessi dell’andamento dell’Inter sull’umore e la vita quotidiana, Cuadrado). Quando parte il countdown degli ultimi dieci minuti, il mio amico arriva finalmente al dunque:

“Secondo me, potremmo fare un podcast”.

Mentre lo dice, il suo cane abbaia al mio (“Esci da sotto il divano, dai! L’avessi saputo me ne stavo a casa!”) e io nel casino capisco Donbass.

“Scusa?”

“Un podcast”.

“Ah, un podcast”.

“Il podcast dell’interismo moderno”.

“Ah! Cioè. tipo…”

“Sì, Settore, interismo moderno eccetera. Formato podcast”.

“Podcast!”, faccio io, che non riesco a mettere insieme più di un concetto per volta.

“Podcast, bravo. Quanti ne ascolti tu?”.

In quel momento, al bivio tra iniziare una pietosa supercazzola e dirgli la verità, anche in meno della nostra amicizia scelgo la seconda strada, “ehm, zero”, proprio nel momento in cui il suo cane abbaia di nuovo al mio (“E allora? E’ così che tratti gli ospiti? Sei più noiosa di un ottavo di finale di un torneo femminile 250”), e da come il mio amico sorride mi accorgerò più tardi che, nel bel mezzo del bau!bau!bau!, avrà capito “ehm, cento”.

“Wow! Bene!”, e parte improvvisando un piano editoriale che pare di sentire Linus alla convention di Audiradio. Lo lascio parlare finchè mi fa “Eh? Che ne dici?” proprio mentre entrambi ci chiniamo a dividere le nostre due cagnoline che si azzuffano e nella confusione io ne approfitto per rispondere con una disarmante sincerità che vorrei tanto non lo offendesse, “Beh, mi sembra proprio una cagata”, al che lui urla “Evvai!” e mi abbraccia come se avesse segnato Sommer di testa su calcio d’angolo. E lì capisco che nel casino, con entrambe le cagnoline che abbaiavano, con la SUA che mordeva il MIO divano, lui deve aver capito “figata”.

Resto nel dubbio fino a quando lui se ne va, troppo rilassato per essere uno a cui avevo appena detto che i podcast non so neanche cosa siano e che la sua idea è una vera cagata. Poi diventa tutto chiaro: nella mezz’ora successiva, mi inonda di whatsapp con tutorial e cazzi vari e con il link per l’acquisto su Amazon di un lussuoso microfono che non ce l’hanno manco quelli di Radio3 per il pippone delle sei-sette ore di rassegna stampa del mattino.

Vabbe’, ormai non posso più dirgli di no, quindi un giorno di questi – molto presto, pare – partiremo. In una successiva videocall (strumento utile per dirsi delle cose senza che i cani si azzuffino) (e, ho scoperto, anche per registrare un podcast senza rompere i coglioni a nessuno) io mi sono permesso di buttargli lì: ‘scolta, però non facciamo una roba noiosa e fatta alla cazzo di cane. Al che lui mi ha detto: ma certo che no, per chi mi hai preso, per il professor Barbero? Quindi, abbiamo pensato di non farla proprio da soli, ‘sta cosa. Mandando un vocale (sì, un vocale: è un podcast, no?) su Whatsapp al 351 351 2355 potete sottoporci le vostre domande/sollecitazioni/provocazioni/disquisizioni sull’Inter e noi in qualche modo risponderemo. Attendiamo i vostri contributi, siate vivaci e propositivi. Le porte sono aperte a chiunque, persino (rumore di tuoni) a uno juventino, volendo esagerare.

Tipo, chessò, lasciamo giocare il derby, così abbiamo un bell’argomento da cui partire. E cominciamo. Il mio amico dice che è una figata. Boh, vediamo. Tra l’altro è già arrivato il microfono, per il quale ho acceso un agile finanziamento in 36 mesi ipotecando la macchina del Nespresso. Bellissimo, sembro Donald Fagen sulla copertina di The Nightfly mentre canta “C’è solo l’Inter”. Non potremmo cristallizzare questo momento e fermarci qui? Non essendoci cagnoline che abbaiavano, il mio amico mi ha guardato e ha detto no.

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Lauthuram

Diciamo che un 12 a 0 sarebbe stato un risultato più giusto, ma possiamo accontentarci. E mentre aggiungiamo la Fiorentina alla lista delle squadre di cui più avanti valuteremo il valore (retrocederà direttamente come Monza e Cagliari?) nel frattempo costringiamo l’Italia, il mondo e l’universo conosciuto a salutarci in quanto capolista, a punteggio pieno, a zero gol subiti e col capocannoniere in carichissima.

A sole 35 giornate dalla fine, a soli due giorni dalla fine del calciomercato e nella prospettiva della solita inutile e intempestiva pausa per le nazionali di inizio settembre – no, dico: esiste calcisticamente una roba più fastidiosa? – ogni considerazione è quantomai prematura, probabilmente inesatta, sicuramente edulcorata dalla nostra visione celestiale di tutto questo bendiddio. Allora parliamo di quello che è successo in campo, che almeno è oggettivo. Cioè, l’hanno visto anche i non interisti. Gentaglia, ok, ma l’hanno vista anche loro.

L’azione del primo gol è stata bellissima. Ci sono stati tipo quindi-venti secondi di wrestling sulla tre quarti, in cui l’Inter e la Fiorentina conquistavano palla e la riperdevano. Ma mentre la Fiorentina riconquistava palla casualmente e la riperdeva casualmente, un po’ da spettatrice di tutta ‘sta guapparia, notavo che l’Inter la perdeva per delle cazzate concettuali ma la riconquistava ferocemente, cioè facendosi perdonare subito le cazzate precedenti. In quei quindici-venti secondi – che io ancora non immaginavo sarebbero culminati con il gol – l’Inter mi è molto piaciuta. Mi stava piacendo la voglia di rimediare all’errore, di fermare subito l’avversario rimesso colpevolmente in gioco. Poi vabbe’, Dimarco invece di riperderla per la sesta volta l’ha messa bene in mezzo e Thuram ha fatto un gran gol, sbloccandosi in una partita che l’avrebbe visto comunque protagonista per tecnica, generosità, cazzimma, spirito di sacrificio. Gol, assist, rigore procurato, due quasi-gol. Buono.

L’azione del secondo gol è stata bellissima, una roba fulminea, da sballo, quei contropiedi che tu, docente a contratto, vorresti mostrare al Master del contropiede fermando le immagini, usando il puntatore laser, fissando parametri tecnici e atletici, cronometrando l’azione e sottolineando l’armonia dei passaggi – sembrava la staffetta 4×100, pum, pum, pum – e spiegando agli allievi la bellezza di quanto stanno vedendo, ve ne rendete conto no?, e se non ve ne renderete conto vi meritare il campionato arabo, tzè.

L’azione del terzo gol è stata bellissima, perchè sembrava palla persa e invece ti prendi un rigore, e anche lì ci vuole voglia, voglia di buttarsi nella mischia, voglia di provarci, e la voglia è la parola chiave di questa Inter.

L’azione del quarto gol è stata bellissima, perchè il calciatore più odiato ha messo in mezzo una palla sopraffina e il calciatore più amato l’ha messa dentro da dio, accidenti a lui, e l’amore è la seconda parola chiave di questa Inter.

Ecco, forse il derby – che è anche lo scontro al vertice – casca a fagiuolo per dare una dimensione un po’ più reale a questa Inter e a questa nostra luna di miele collettiva con la squadra che si sarà anche rinnovata molto e forse indebolita un po’, ma viaggia che è un piacere. Peccato, però, che il derby sarà tra due settimane. Se incontro quello che fa il calendario mondiale del calcio, gliene dico un paio. Cioè, non ci fossero stati i mondiali di basket e gli Us Open mi sarei incatenato al portone della Figc protestando per questo spettacolo messo in pausa non solo sul più bello, ma terribilmente presto. Nemmeno a Rete4 interrompono un filmissimo così alla cazzo.

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