Chi c’è, c’è

Mercoledì: sconfitta col Bologna, fuori dalla Coppa Italia. Giovedì: conferma infortunio Lautaro. Venerdì: infortunio Dimarco. Ci sono state anche vigilie migliori per una partita, ecco. Mettici anche che poche ore prima di Inter-Lecce la Juve vince a Frosinone: un po’ di nervosismo monta. E tra le mie ordinarie frequentazioni nerazzurre capto qualche frasetta densa di preoccupazione: e se adesso cominciasse a dirci tutto male? E se la nostra macchina più o meno perfetta iniziasse a perdere colpi, incepparsi, guastarsi?

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Certo, l’infortunio di Lautaro – giocatore nei fatti insostituibile – è il peggio che ci possa capitare. E quando si fermano i titolari si deve sempre affrontare un’emergenza, piccola o grande che sia. Ma, facendo mente locale, l’Inter è arrivata fin qui – 17 partite di campionato, 14 vinte – convivendo con una serie di infortuni che si sono spalmati con alterna intensità in questi primi quattro mesi di campionato.

Abbiamo avuto un infortunio chirurgico (Cuadrado), due piuttosto seri (Arnautovic e Pavard), un altro paio durati qualche settimana (Dumfries e Bastoni), più guai non gravi ma ricorrenti (Sanchez e De Vrij), più qualche indisponibilità momentanea. Ora Lautaro e Dimarco, una bella botta. Oggi a San Siro c’erano tre titolari (Lautaro, Dimarco e Dumfries) in borghese in tribuna.

Insomma, mentre sentivo che ad altri correva un brivido sinistro lungo la schiena, a me veniva da pensare che la gestione degli infortuni, anzi, la reazione agli infortuni è stata in questi quattro mesi un nostro punto di forza. A Napoli, mentre vincevamo 3-0 in casa dei campioni d’Italia, nel finale di gara avevamo a un certo punto fuori per infortunio quattro difensori (di cui tre centrali) e non ce ne siamo accorti. La (idealmente) portentosa catena di destra non è praticamente mai stata al completo: l’unico sempre disponibile è stato Darmian. E’ stato un problema?

La partita con il Lecce poteva complicarsi, senza Lautaro, senza i due esterni titolari e con un po’ di ansia latente. A parte qualche minuto di passività nel secondo tempo e qualche spazio di troppo concesso, abbiamo fatto la nostra solita partita d’attacco (20 tiri, 16 corner) e l’abbiamo portata a casa. Nel suo piccolo, era una partita importante (perchè venivamo da una sconfitta, per gli infortuni, per la Juve che aveva già vinto) e l’abbiamo vinta. Ne mancano 21 e saranno tutte così: importanti, per piccole o grandi ragioni.

Non ci siamo accorti delle assenze? Beh, un po’ sì. Arnautovic non è Lautaro, anche se poi si è riscattato con una genialata. E non potere fare cambi sugli esterni (Darmian si è fatto tutta la partita, Carlos Augusto è uscito all’84’) ti toglie parecchio. Ma l’abbiamo vinta piuttosto bene. Dopo tre mesi da oggetto misterioso Bisseck ormai è diventato un’opzione vera. Il bello di questa Inter è che tutti stanno facendo la loro parte. Buon Natale e Juve merda.

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Mi si nota di più se

Cervello dell’interista medio, lobo del ragionamento. Mi si nota di più se faccio l’incazzato per una sconfitta ai supplementari dopo essere andati in vantaggio, o se dico che mica si possono vincere tutte e sono cose che succedono e il Bologna è una bella realtà? Mi si nota di più se faccio un moderato paiolo alla squadra per essersi autocondannata a 120 minuti infrasettimanali pure un po’ frustranti data l’inculata finale, o se provo a convincere tutti che è meglio così e che la Coppa Italia era un intralcio sulla strada del nostro supremo obiettivo – la seconda stella – e di quello vice-supremo, cioè andare avanti in Champions?

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Io già vi vedo tutti a dividervi tra queste scuole di pensiero – con decine di relative sfumature – nel commentare questa sconfitta agli ottavi di Coppa col Bologna, ormai il nostro Sassuolo-2, che ci segna due gol a botta, ci lascia andare e poi rimonta, squadra che a volte gliene fai 6 e altre volte ci perdi scudetti vinti, e giocaci con spensieratezza se ci riesci. La notizia bella è che resta una sola partita stagionale col Bologna. La notizia brutta, a parte l’essere usciti dalla Coppa Italia dopo averne vinte due di fila, è che Lautaro a un certo punto – sì, ok, ha sbagliato il rigore, non è una gran novità, ma non è quello il peggio – si è toccato lì.

E anche noi ci siamo toccati lì, in modo diverso. Lui l’adduttore, noi i coglioni. Perchè se possiamo passare indenni da una sconfitta agli ottavi di Coppa Italia, non possiamo passare indenni dagli adduttori di Lautaro, specie se stanchi, affaticati, contratti (e via peggiorando). Non ce lo possiamo permettere. Se a Lautaro e/o Thuram viene il mal di pancia e/o di adduttore, per noi sono cazzi: entrano Arnautovic e/o Sanchez e non è la stessa cosa, non può esserla, nemmeno lontanamente.

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Ecco, questa merdosissima Inter-Bologna di Coppa Italia, che potevamo vincere comodamente 4-2 e invece abbiamo perso un po’ da stolti, ci rimette con i piedi per terra non tanto perchè ci rivela che possiamo anche perdere delle partite – una dura realtà, I know -, no, macché, quanto perché ci dimostra come siamo terribilmente in bilico sull’unica falla che abbiamo. Abbiamo avuto quattro difensori infortunati contemporaneamente e non è successo niente. Abbiamo visto Lautaro toccarsi un adduttore e addio, siamo nel panico. Non per immotivata isteria, ma per motivatissima preoccupazione.

Dovesse fermarsi Lautaro, oddio, che si fa?

Ecco perché la sconfitta di questa sera, di fronte a ben altre prospettive, ha persino un suo lato positivo. Evitiamo una partita e gennaio e un probabile doppio derby ad aprile, tre possibilità in meno che Lautaro stressi i muscoli delle sue gambe fatate. Sabato c’è già il Lecce, bisogna vincere. Nei ritagli di tempo intavoliamo una trattativa seria su Zirkzee. Sulla Coppa Italia Frecciarossa, messe le altre cose a posto, ci faremo presto una ragione.

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E se ne va

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Compiaciuti dalla nostra inconsueta bellezza, distratti dalla Champions, impegnati a guardarci alle spalle dai gobbacci maledetti, non ci siamo nemmeno accorti che nelle ultime sette giornate di campionato abbiamo affrontato cinque scontri diretti, di cui quattro in trasferta. Nell’ordine Roma (in casa), poi (tutte fuori) Atalanta, Juve, Napoli e Lazio, intervallati da Frosinone e Udinese in casa. Non ci siamo nemmeno cautelati parlando di ciclo di ferro, di serie durissima, niente, abbiamo giocato e stop. 6 vittorie e 1 pareggio, 15 gol fatti e 2 subiti. Nei soli cinque scontri diretti (ripeto: quattro in trasferta) 4 vittorie e il pari con la Juve. 9 gol fatti e 2 subiti. Un rendimento mostruoso proprio dove l’anno scorso eravamo clamorosamente mancati.

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Non importa ovviamente che la Lazio oggi sia decima in classifica. Era uno step importante, una trasferta-chiave, è stata in effetti una partita per lunghi tratti difficile e la pressione era alta, dovendo sfruttare l’occasione del pari della Juve. Nella sua limitata resa estetica, è stata una delle prestazioni più importanti della stagione. Il cinismo con cui abbiamo colpito nel momento giusto (in entrambi i casi, nel momento migliore della Lazio) e la quasi assoluta calma con cui abbiamo gestito l’iniziativa degli avversari sono i due elementi che compongono un piccolo capolavoro.

Ormai abbiamo tutti finito gli scongiuri e le scaramanzie: ma come far finta di non vedere che questa squadra funziona, che c’è un’unità di intenti e di umori rara nello spogliatoio, che c’è una gran voglia di andarsi a prendere gli obiettivi, uno dopo l’altro, con la forza del gioco e con la calma dei forti? Se gli scontri diretti li abbiamo superati con un bilancio straordinario, diciamo allora che le prossime partite – Lecce, Genoa, Verona – potrebbero comportarci un altro tipo di difficoltà, più cerebrale che tecnico. Anche questo sarà uno step da superare, con la maturità.

L’anno scorso eravamo tutti prostrati e ammirati dal cammino pazzesco del Napoli, praticamente immacolato, una macchina perfetta. Alla sedicesima giornata il Napoli aveva 41 punti.

Come l’Inter.

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Era meglio primi

Chiudere il girone di Champions imbattuti con 12 punti e arrivare secondi dietro alla Real Sociedad rischia di passare al parzialissimo archivio di questa stagione come una delusione, magari piccola ma significativa. Lunedì sera sapremo dare la dimensione definitiva alla cosa: andare al sorteggio da secondi ci mette di fronte al rischio di un ottavo tosto / difficile / quasi impossibile; fossimo arrivati primi, avremmo potuto pescare anche nelle categorie morbido / buono / fattibile.

Ormai la frittata è fatta. Dovevamo vincere e invece abbiamo fatto 0-0, contro una squadra che ha messo la sua tostaggine – ce n’eravamo accorti all’andata – al servizio del suo obiettivo, quello di pareggiare, e l’ha portata a casa giusto con un paio di spaventi, ma niente di che. Non si può rimproverare all’Inter nulla sulla “presenza” in partita, per carità, giocata sempre sul pezzo. Ma sul fatto di avere cercato in modo spasmodico di vincerla, ecco, qualche rimpianto resta.

E dunque era il caso di fare turnover, sapendo di dovere vincere contro una delle rare squadre che in questa stagione ti ha messo in seria difficoltà?

Ascolta “Baschi, campanili e tacchini online” su Spreaker.

Tra i rimpianti, quello più clamoroso è l’aver visto un scintillante Thuram e un sempre pericoloso Lautaro giocare i loro spezzoni di partita con due partner-fantasma, quando un’oretta dei due insieme forse avrebbe prodotto l’effetto desiderato – cioè metterla. Non impazzisco per le statistiche ma non posso fare a meno di guardarle e fare raffronti: beh, è stata un’Inter a scartamento ridotto rispetto al solito, anche solo a tre giorni fa, ben sapendo che l’Udinese non è la Real Sociedad, certo, però il tarlo resta.

Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, possiamo compiacerci del fatto che siamo qui a lamentarci di una partita non vinta, senza aver subito gol (la tredicesima volta da agosto, un’enormità), avendo chiuso in testa il girone di Champions da imbattuti (condannati solo da due golletti di differenza reti) dopo aver raggiunto la qualificazione con due giornate di anticipo. Ecco, ci stiamo lamentando di tutto questo. L’anno scorso di questi tempi, al confronto, avremmo dovuto darci fuoco come bonzi.

E a differenza di un anno fa, al sorteggio non saremo solo noi ad avere paura. Per le prime, l’Inter sarà la squadra da evitare. Per noi, sarebbero da evitare quasi tutte. Non vorrei il City (lo vorrei adesso, che fa abbastanza cagare, ma a febbraio magari ne farà cinque a partita), nè il Real (squadra da Champions se ce n’è una), nè il Bayern (eh, fa paura). Le altre vanno “bene” (notare le virgolette): cioè, sono tutte forti, ma un po’ più vulnerabili. Tra le seconde ci sarebbe stato l’imbarazzo della scelta, ma non siamo arrivati primi. Ed è solo colpa nostra.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Tipo: chi vorreste in Champions? Chi non vorreste? Quale squadra vorreste fosse radiata dal campionato di serie A? E perchè proprio la Juve?)

(il podcast, che viaggia verso il trentesimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Seguite questo tutorial: scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. Belli stronzi)

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I prossimi 50 giorni

Questo era un turno favorevole (loro il Napoli, noi l’Udinese) e quindi il punto non è il cosa (avere vinto, come loro) ma il come. Perchè altre Inter avrebbero forse indugiato un po’ di più, incasinandosi oltre ogni logica (non parlo di Inter del passato o di due anni fa o dell’anno scorso, parlo di Sassuolo e Bologna). Questa Inter invece non ha fatto il turnover con se stessa, ha messo in campo il meglio, anche come rendimento – 4 gol, 1 palo, 15 tiri, 75% possesso – e l’ha portata a casa dando la miglior impressione possibile. L’Udinese è quel che è, per carità, ma aveva perso solo due trasferte su sette: poteva andare peggio, e invece no. Difficilmente poteva andare meglio, ecco.

Ventiquattr’ore prima la solita horror Juve aveva fatto il suo: poche cose, magari anche pochissime, e partita vinta senza subire gol. E’ un format micidiale, specie se le altre ci mettono del loro – che colpa ne ha la Juve se Kvara non segna un gol fatto? A questa Juve dobbiamo non solo abituarci, ma adeguarci. Nel senso che loro sono questi e il loro lavoro lo stanno facendo bene. Nella classifica non c’è l’asterisco * ma fanno cagare. Nella classifica c’è la Juve sotto di due punti perché hanno pareggiato una partita che noi abbiamo vinto. Il resto è tutto uguale. L’estetica purtroppo non conta. Dobbiamo adeguarci ad averli come riferimento (come fosse una novità, tzè), dobbiamo adeguarci alle loro ambizioni (che sono uguali alle nostre), dobbiamo adeguarci all’evidenza che il loro pullman di traverso funziona tanto quanto le nostre azioni champagne.

Ascolta “La valanga rosa, Luce e Tenebre” su Spreaker.

Rappresentiamo due modelli diversi di calcio e di vita (come fosse una novità, tzè) ed è palese che siamo noi quelli che devono restare sul pezzo, perché l’essenzialismo di Allegri sarà anche ansiogeno ma porta fieno in cascina con regolarità impressionante e quindi loro, i brutti, sono in fiducia tanto quanto noi, i belli. Senza l’assillo di creare, solo di demolire.

Siamo noi insomma che dobbiamo restare sul pezzo. Non ci deve interessare quello che succede a loro, alle loro partite tutte uguali e dall’esito inspiegabilmente perfetto – non giocano, non piacciono, non prendono gol, vincono. Dobbiamo restare quelli che siamo, gli anti-pullman, che è una condizione dispendiosa ma appagante. Sarà difficile per Inter e Juve andare meglio di così (noi abbiamo vinto 12 partite su 15, loro 11 su 15. Noi abbiamo preso 7 gol in 15 partite, loro – escludendo i 4 gol presi dal Sassuolo – ne hanno presi 5 in 14 partite). E’ uno standard stratosferico. E se la legge dei grandi numeri dice che possiamo solo andare peggio, cerchiamo di andare meno peggio di loro.

Noi ora avremo la Lazio, a Roma. Poi Lecce, Genoa, Verona, Monza, Atalanta, Fiorentina. Loro hanno Genoa, Frosinone, Roma, Salernitana, Sassuolo, Lecce, Empoli. Poi, il 4 febbraio, noi avremo la Juve e loro avranno l’Inter. Ecco, cerchiamo di arrivare bene al 4 febbraio. Dopodichè, vedremo.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Però, per rimanere in tema, sarebbe carino parlare di scaramanzie, di vecchi ricordi, di nuove sensazioni, di brutta Juve, di bella Inter, cose così)

(il podcast, che ha ormai ampiamente superato la soglia psicologica dei venti episodi, anzi, anche quella dei venticinque, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Non siete credibili, dai: scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. Se mi giustificate questa cosa con “ho di meglio da fare” e mi provate che effettivamente quello che avete da fare è meglio di una puntata del podcast, beh, vi assolverò. Ma non credo)

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Lost

Voi salvate foto sul desktop? Io sì, poi ogni tanto faccio pulizia – essenzialmente per cause di forza maggiore, quando cioè non ci sta più un cazzo. Ecco, appunto, stamattina ho dovuto fare pulizia. Le iconcine si accumulano mischiate tra loro: cose mie, cose di lavoro, cose del blog. Cose recentissime e cose più vecchie (parlo di settimane, max pochi mesi, perchè il desktop si riempie in fretta), o invecchiate male. Tipo che avevo ancora una foto di Lukaku con la nostra seconda maglia gialla dello scorso campionato – la foto in cui punta il dito a Barella. Ok, drag, drop, trash. E poi vedo in un angolino un’altra foto di un giocatore dall’aspetto familiare e con la maglia gialla. La apro. Non è la vecchia seconda maglia, è la maglia di un’altra squadra. Lui invece, in effetti, è un volto familiare. E’ Brozo.

Ed è stato così, in modo del tutto casuale ma sorprendente, tipico di quando vi si sblocca un ricordo, che mi sono appunto ricordato dell’esistenza geografica, macroeconomica e calcistica dell’Arabia Saudita. Dove si gioca – ah, che comodità Google – un campionato giunto alla 16esima giornata (di 34 totali, la loro serie A – per i più precisini, la Roshn Saudi League – è a 18 squadre). C’è in testa l’Al Hilal (Koulibaly, Milinkovic-Savic, quel che resta di Neymar) con 7 punti di vantaggio sull’Al-Nassr (CR7, Brozo, Manè) mentre è crisi Al-Hittihad (Benzema, Kantè, Fabinho), i detentori che attualmente sono quarti e lontanissimi dalla zona scudetto. Davanti a loro l’Al-Ahli (Firmino, Kessiè, Mahrez).

Breve sondaggio: c’è qualcuno che segue la Lega saudita? Che guarda le partite su Sportitalia o La7? C’è qualcuno a cui importa minimamente un beato cazzo di questa roba? Tipo che alla lettura della classifica di cui sopra abbia pensato: “A Setto’, ma ‘ndo vivi, già lo sapevo”?

Ascolta “Vecio Friul, studi di non Settore e poltrone pelose” su Spreaker.

Circa 100 giorni fa scrivevo preoccupato dell’esodo dei calciatori europei (non tutti vecchi, non tutti rottami, non tutti fuori dal giro) verso l’Arabia, ingolositi – è umano – da aumenti di stipendi nell’ordine del 500-1000%. Erano le ultime ore di mercato, un mercato occidentale (chiamiamolo così) parecchio disorientato da questa variabile impazzita. Per la prima volta, il baricentro del mondo calcistico si era un po’ spostato, inequivocabilmente: inverno 2022, i Mondiali in Qatar (con tutto quello che hanno comportato prima, durante e dopo); estate 2023, il mondo arabo fa spesa in Europa senza alcun controllo nè opposizione e si porta a casa pezzi grossi, parecchi.

Voglio precisare: ricordando che “scrivevo preoccupato”, non volevo tirarmela come se le mie preoccupazioni fossero state importanti, ahahah, ma chi se ne frega; volevo solo dire che anche un giuggiolone come me si era preoccupato di fronte a questo assalto alla diligenza di un mondo privo di cultura e di centralità calcistica ma dotato di un portafogli sterminato. Come se un giorno i magnati, chessò, della Groenlandia cominciassero a convertire palaghiaccio e igloo in palasport e, folgorati dal basket, iniziassero a offrire contratti immani a gente dell’Nba e dell’Eurolega.

Ok, detto questo: e 100 giorni dopo quella “preoccupazione”?

Non so voi, appunto, e non so cosa stiano facendo i calciofili di ogni genere e grado in giro per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Ma io mi sono improvvisamente ricordato dell’Arabia questa mattina, aprendo la foto di Brozo in maglia saudita. Non sapevo che avessero giocato 16 giornate di campionato. Ho perso completamente di vista tutti i campioni che sono andati lì, o in un paio di altre leghe confinanti.

Oh, io non so cosa succederà tra qualche mese, al prossimo mercato (o magari già a gennaio). E non ho minimamente idea se la Fifa si inventerà qualcosa per mettere l’Arabia più al centro del calcio di quanto già non lo sia solo per il fatto di poter comprare a destra o a manca, o (soprattutto) di mettere sul piatto delle pile immani di bigliettoni con cui, per dire, permettersi la qualunque, tipo fare giocare la Supercoppa italiana davanti a un pubblico di sceicchi e cammelli. Ma se tutti fossero come me, l’Arabia sarebbe solo una specie di buco nero foderato d’oro che ingoia calciatori e bòn, fine, morta lì, alla faccia dei petrodollari e degli stadi nel deserto. Per me l’Arabia è come il Molise: forse non esiste.

Sì, ok, non voglio fare l’ingenuo all’eccesso e il finto tifoso con la schiena superdritta. Il vento arabo sul calcio è una parte del tutto, cioè di quell’inquietante, clamoroso e irreversibile mutamento dell’asse degli interessi terrestri, a partire da quelli politici ed economici. No, tranquilli, mi sono accorto anch’io che al mondo non ci sono solo Europa, Russia e Stati Uniti, ho visto qualche milione di telegiornali, lo so, è uno schema un po’ vecchiotto, sicuramente sommario, da boomer insomma, un pochino incompleto. Ma parliamo di calcio.

Ecco, prendiamo il mio caso – il nostro, se mi permettete. Noi abbiamo l’Inter, abbiamo la serie A, abbiamo la Juve, il Milan, il Napoli, la Roma, il Sassuolo ecc. ecc., abbiamo la Coppa Italia, abbiamo la Nazionale. Poi abbiamo la Champions League, porca puttana. Abbiamo l’Inter, poi il Napoli, il Milan, la Lazio, e poi il City, il Real, il Barça, il Bayern, l’Arsenal, il Benfica, persino lo Young Boys. Poi conosco maniaci che guardano la Coppa America, qualche malato che guarda la Coppa d’Africa, alcuni bipolari che stanno alzati a vedere la Copa Libertadores.

Ma a me, voglio dire, tifosotto medio, che cazzo me ne frega dell’Arabia? Dove trovo il tempo, la voglia, l’interesse, il pathos per seguire il calcio arabo?

Quindi, il risultato è questo (per me, dico): sono spariti dall’Europa una trentina di pezzi grossi del calcio e me ne sono fatto una ragione del giro di una settimana. Il calcio mi piace uguale, i trenta pezzi grossi hanno fatto spazio e trenta pezzi più piccoli ma senza scene di isteria collettiva, anzi. Trenta pezzi grossi del calcio fanno il bagno nella vasca con i dollari, tipo zio Paperone, e giocano a calcio in un’altra dimensione, di cui io non ho notizie: non le cerco, non me ne arrivano. Io guardo l’Inter e sono felice. C’è gente in fila per andare in Arabia l’estate prossima? Prego, dimenticherò anche voi. Una volta la chiamavano damnatio memoriae, io la chiamo andatevene affanculo contenti voi.

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Meravigliosi

La bellezza di questa Inter è che dopo 18 partite stagionali, con un bilancio 13-4-1 (un bilancione, diciamolo), eri ancora lì a cercare la controprova, il test più attendibile, l’indizio inconfutabile, l’esame vero. E 18 partite, di cui alcune bellissime, non erano bastate a darti il senso di una dimensione reale. Non poteva farlo il derby del 5-1 (tanto esagerato da apparire episodico), nè il cammino in Champions (sì, vabbe’, tutto bene, bravi, ma c’erano mica il Real e il City), nè gli scontri diretti in campionato (quali? con chi? diretti? maddai), nè la trasferta gobba (una non-partita a palleggiare contro un pullman, anzi, con un pullman).

Finchè una sera per la 19esima vai a Napoli, dai campioni d’Italia un po’ sgarrupati ma con l’allenatore nuovo e quindi con una cazzimma ritrovata, e vinci 3-0 facendo una partita che, onestamente, dovrebbe avere spaventato 17 delle 18 squadre che hanno assistito al match: nel senso che, se uno vede una partita così – a me, per dire, è successo diverse volte la scorsa stagione vedendo proprio il Napoli – si alza dal divano e dice: va bene, per quest’anno è andata così, complimenti, disdico Dazn, anzi no, lo tengo perchè li voglio rivedere.

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La diciottesima squadra è la Juve, la horror-Juve di Allegri, cui lo spettacolo di Napoli-Inter non sposta nulla, neanche un millimicron. Di corto muso in corto muso, sono due punti sotto di noi. Gli basta ampiamente così. Noi facciamo gli splendidi, loro fanno schifo e sono due punti sotto di noi. E ditemi voi se tutto questo ha un senso. E’ come se Michelangelo fosse in testa alla classifica degli artisti, e due punti sotto ci fosse Ciccio l’imbianchino (500 euro a stanza con fattura, 300 in nero, telefonare ore pasti).

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Ma non parliamo di Juve, parliamo di noi. Abbiamo chiuso il ciclo terribile delle 5 trasferte in 6 partite vincendo l’unica in casa e tre di quelle fuori (Salisburgo, Atalanta, Napoli), pareggiando a Lisbona (partita crazy) e Torino (avversario hugly). Siamo primi in campionato con miglior attacco, miglior difesa (7 gol presi in 14 partite) e capocannoniere. Siamo qualificati in Champions, vedremo se primi o secondi.

A Napoli partitone clamoroso, contro il miglior Napoli di quest’anno, che prende un palo con Politano, si schianta contro un Sommer incredibile e poi si frantuma sotto i capolavori di Cahla e Barella, due gol da sballo totale. E lì la partita è virtualmente finita. Le proteste del Napoli le capisco: fai una gran partita e ne prendi tre, mi sarei incazzato anch’io. Quello su Osimehn era rigore? Boh, penso che essersi rotolato mezz’ora simulando la recisione completa del tendine d’Achille dopo un innocente incrocio di piedi non gli abbia giovato in termini di credibilità. Se per l’arbitro non è azione dubbia, il Var non incide: era capitato anche a noi.

Comunque, ecco, ora siamo con le spalle al muro: la vittoria a Napoli ci certifica che siamo i più forti. Una certezza che può metterci pressione. Oppure no, può darci sicurezza. Bellezza 35, Orripilanza 33, Vacuità 29. Mancano 24 giornate alle fine, il pronostico resta aperto. La Bellezza è caduca, io direi di vivere il momento.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Però, per rimanere in tema, sarebbe carino parlare di Inter, di scaramanzie, di vecchi ricordi, di nuove sensazioni, cose così)

(il podcast, che ha ormai ampiamente superato la soglia psicologica dei venti episodi, anzi, anche quella dei venticinque, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Non siete credibili, dai: scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. Ma poi non eccedete nei soliti piagnistei, siete VOI che vi escludete da questo angolo di cultura e simpatia)

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Fado, amore e joaomaria

La sera in cui un ex ti segna tre gol in mezz’ora, e quell’ex non è – chessò – Icardi o Lukaku (gente, per dire, da cui tecnicamente ti puoi aspettare tre gol in mezz’ora) ma Joao Mario (gente da cui in mezz’ora non hai mai visto fare non dico tre gol, ma tre cose passabili, ecco), rischia di essere una di quelle sere maledette che ti cambia il corso di una stagione fin qui quasi perfetta. Perchè le cose nello sport vanno così: viaggi col pilota automatico della fiducia e ti va tutto bene, poi una sera all’improvviso ti prendi cinque o sei pere a Lisbona in Eurovisione e il tuo castello di certezze si sgretola come una sbrisolona sotto le ruote di un suv in manovra.

(non so come mi sia uscita questa metafora, ma ho deciso che la tengo)

Perchè, ecco, io dopo il terzo gol di Joao Mario e dopo 35′ di Benfica-Inter in cui la mia squadra schierata con la formazione B sembrava piuttosto disinteressata alla partita mi sono visto apparire davanti agli occhi questa cosa: il tabellone del Da Luz con un risultato catastrofico (tipo Benfica-Inter 6-0) diventare un meme eterno, tipo quello di Milan-Cavese o di Rimini-Juve, you know, quelle robe che te le postano a tradimento per ricordarti momenti meno felici della tua lunga storia.

Ascolta “Ke Klassen, Dum Dum e danze tribali” su Spreaker.

E qui, proprio in questo momento, si verifica un clamoroso corto circuito tra blog e podcast, cioè tra me che guardo una cosa (una partita di calcio, 99 volte su 100) (sono un poveretto, lo so. Voi no?) e poi ne scrivo o ne parlo a seconda del device.

E’ andata così. Quando finisce quella pena del primo tempo, mando un vocale al mio socio Max così, giusto per inventarmi una gag in questa serata di pura merda distillata, e gli dico: “Vabbe’, basta così, io cambio canale, mi guardo Chi l’ha visto? e mi sento un po’ di fado, due cosette allegre, molto più di questa partita inutile e malsana”.

D’accordo, era una gag, ma l’ho fatto davvero. Nell’attesa di tornare sul divano per il secondo tempo ha preso il mio pc, mi sono isolato nello studio, ho avviato Raiplay e Youtube e mi sono messo a switchare tra le due pagine – Chi l’ha visto? e un pezzo di fado – senza rendermi conto che il tempo trascorreva veloce. Tanto che a un certo punto mi arriva un vocale di Max che dice: “Ha segnato Arnautovic, ti prego, continua col fado”.

Ascolta “Sostiene Settore, fado e fede” su Spreaker.

Ha segnato Arnautovic. Un miracolo, mi dico. Vabbe’, allora continuo col fado. Mentre zompetto su YouTube tra video di Amalia Rodrigues e video di Ana Moura, pur non riuscendo a distinguere un pezzo dall’altro, e guardando la Sciarelli senza audio, vengo a sapere via via che abbiamo segnato anche il 2-3 – e io continuo, mi costringo allo scranno del sacrificio – e poi a un certo punto che ci danno un rigore e lo tira Sanchez.

Gol. E’ il secondo miracolo – Sanchez che segna un rigore dopo averne sbagliati 15 degli ultimi 18, una roba così – e basta, non mi alzo più, il mio posto è qui, il divano è una stanza più in là, saranno dieci passi, ma io non ci vado. Sono sacrifici che un vero interista deve saper affrontare. Mentre cerco Dulce Pontes ma mi imbatto in Marta Pereira (però canta un uomo, ohibò) Max mi informa che abbiamo pure preso un palo, poi che hanno buttato fuori uno di loro. E infine il risultato finale, 3-3, che è meglio di un 3-0 per loro, molto meglio. Perchè tornare a casa con una brutta sconfitta avrebbe rotto un po’ questa positività che ci sostiene, mentre aver rimontato tre gol addirittura la amplifica un po’.

Per la cronaca, ho visto i tre gol dell’Inter solo 16 ore dopo, al tg di La7 delle 13.30. Forza Inter (al primo che mi fa sentire un pezzo di fado gli mando un raggio laser che gli fulmina la scheda audio in un nanosecondo)


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Però, per rimanere in tema, sarebbe carino parlare di Inter, di scaramanzie, cose così. O se volete mandarci un demo mentre cantate una canzone triste portoghese, va bene uguale)

(il podcast, che ha ormai ampiamente superato la soglia psicologica dei venti episodi, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Non dite cazzate, dai: scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. Ma se volete rimanere nell’ignoranza, chi sono io per impedirvelo?)

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Questa Coppa Davis

Il tennis è nella mia top 4 degli sport preferiti, forse top 3, forse top 2 se devo far pesare di più una presunta competenza tecnica (nel senso che ci ho giocato 30 anni e passa, pi-pim e pi-pam, per poi darmi 100% al podismo, pant-pant) rispetto alla semplice frazione emozionale. Il tennis mi piace, mi è sempre piaciuto, mi piacerà sempre. Riesco persino a infervorarmi un po’ a parlare di tennis (tipo di Inter o di calcio, solo una tacca sotto). Mi piace parlare di calcio e di sport – non appena capisco che ai miei occasionali interlocutori gliene frega almeno qualcosa, sennò mi spiace passare per il solito poveretto che si dà le arie da intellettualotto e poi pensa solo al pallone, quale che sia lo sport, mentre gli altri reprimono per gentilezza uno sbadiglio e la prossima volta cambieranno marciapiede – e mi piace parlare di tennis perché ne mastico, con idee mie magari, ma ne mastico. Almeno credo. E comunque: chi se ne frega se ne mastico o no. A me piace il tennis, è nella mia top 4 degli sport preferiti, forse top 3, forse top 2.

Per cui: sono molto contento che l’Italia abbia vinto la Coppa Davis. Ma non sono contento che abbia vinto questa Coppa Davis.

Ci sta, ci sta eccome, che l’Italia riesca a vincere la più importante competizione a squadre nel tennis. Attenzione: dopo più di quarant’anni di carestia, è addirittura una cosa enorme vedere – lo dicono le classifiche, mica il pur competentissimo Sector che ne mastica, fidatevi – che siamo tra le nazioni guida di questo sport per qualità a quantità di giocatori, come gli Usa, la Russia, la Spagna eccetera. Abbiamo vinto la Coppa Davis (questa Coppa Davis) schierando i nostri virtuali numeri 4 e 5, perchè il virtuale 2 (oggi 5) è fermo da non si sa nemmeno quanto e il nostro vero 2 (ma virtuale 3, anche se per bellezza di tennis 1) è in stato di forma tipo Lukaku quando torna dal mare. Cioè, siamo proprio forti come movimento (è incredibile). Poi vabbe’, il nostro numero 1 è il tennista oggi più in palla e più trendy di tutto l’universo e la Coppa Davis (questa Coppa Davis) l’avremmo vinta anche schierando ME come secondo doppista (col cavolo che stavo a rete con ‘sti missili che passano, me ne stavo a fondo e lasciavo fare all’altro) (poi servivo da sotto, per sfregio) (mi chiamano il Kyrgios delle nutrie).

“A Setto’, hai rotto er cazzo co’ tutti ‘sti numeri che nun se capisce ‘na sega”.

Ok, passiamo al secondo argomento. Questa Coppa Davis.

Amici dirigenti del tennis mondiale, voi potete fare il cazzo che vi pare, sia chiaro. Cambiate tutte le formule che vi pare. Però, allora, cambiate anche i nomi. Coppa delle Nazioni, Tennis League, Confederations Cup, Tennis World Champioship, Intercontinental Tennis Trophy, International Tennis Award, Pallina d’Oro, Racchetta Universale, TCFKAD (The Cup Formerly Known As Davis). Ecco, robe così. Non Coppa Davis. Questa non è la Coppa Davis.

Cioè, ma voi che adesso siete saliti sul carro dei vincitori, ecco, voi vi ricordate cos’era la Coppa Davis? Quella vera, non questa robaccia schifosa?

Vi propongo un ripassino. Ogni turno di Coppa Davis si giocava con cinque partite (4 singolari, 1 doppio) al meglio dei 5 set (che assoluta meraviglia) distribuite in tre giorni (2 singolari il venerdì, il doppio il sabato, 2 singolari la domenica). Si giocava sul campo di una delle due nazioni (secondo un criterio di turnazione: la prossima volta che ci sorteggiano insieme, giochiamo da te), che sceglieva luogo e superficie (che assoluta meraviglia).

Ma voi ve lo ricordate il parquet di Asuncion?

Allora, vi spiego. Anni Settanta-Ottanta. Il Paraguay aveva un signor giocatore, Victor Pecci, e poi nessuno. Ma quando c’era la Coppa Davis nessuno voleva andare a giocare in Paraguay. Perchè loro sceglievano come superficie il parquet del palasport di Asuncion, una roba così scivolosa che lo stadio successivo era il palaghiaccio di Bolzano. E una volta batterono gli Stati Uniti di McEnroe (ad Asuncion, ovvio, perchè l’avessero giocata a New York beccavano un 5-0 e a casa). Ma voi ve lo ricordate il Brasile che ci fece giocare in riva al mare a Macejo con tipo 40 gradi all’ombra e 55 al sole? O la Polonia che ci fece giocare in un campo in terra rossa con le righe in gesso che quell’infame di Fibak le cancellava col piede?

Ma ve le ricordate queste cose meravigliose?

E poi la Coppa Davis era anche una specie di zona franca per il tifo caloroso. Si vedevano scene, in Coppa Davis, che se fossero successe in uno Slam qualsiasi avrebbero sospeso la partita e arrestata mezza tribuna per interruzione di pubblico servizio. Questa era la Coppa Davis, una cosa romantica e sublime. Magari a volte un po’ estenuante (metti che si gioca sulla terra rossa, si affrontano due pallettari al meglio dei cinque set: non benissimo), ma terribilmente affascinante, epica, unica.

Ascolta “Storia di un grande amore, danze caraibiche e Swarovski” su Spreaker.

E questa Coppa Davis? Avendola chiamata in qualsiasi altro modo, non ci sarebbe stato nulla da eccepire. Ma non mi puoi chiamare Coppa Davis una competizione i cui incontri si risolvono in un pomeriggio (non in tre giorni), in tre partite (non in cinque) al meglio dei tre set (non dei cinque), in campo neutro (non in casa dell’una o dell’altra) e quindi sempre sulla stessa superficie (non su una a caso tra terra, veloce o erba a seconda della scelta dei padroni di casa) (o il parquet di Asuncion). Senza contare che il doppio pesa per il 33% e non per il 20% (che già contava parecchio), e anzi è spesso il punto decisivio. Il doppio. Una specialità semiclandestina (escluso la Coppa Davis, quanti doppi vedete in tv in un anno? Giusto le finali degli Slam, nei ritagli di palinsesto, forse). Il doppio composto 9 volte su 10 da giocatori che non giocano mai il doppio (uno spettacolo indegno).

Cioè, ma che merda è?

Facciamo un esempio. Facciamo che domani cambiano le regole dei Mondiali di calcio. Che anzichè in un mese si giocheranno in una settimana attraverso una serie di triangolari tipo Trofeo Birra Moretti, con tempi di 30 minuti anzichè 45, e se finisce pari si fanno gli shoot-out? Sareste contenti? Li chiamereste Mondiali?

Vabbe’, ci tenevo a dirlo perchè mi piace parlare di tennis, che è nella mia top 4 degli sport preferiti, forse top 3, forse top 2. Abbasso la Coppa Davis (questa Coppa Davis), viva il tennis, viva l’Italia, forza Inter.

P.S.: se siamo forti come movimento, adesso dobbiamo durare. La squadra di Panatta, Barazzutti ecc. fece 4 finali in 5 anni. Ragazzi, fate che non sia una roba occasionale così come occasionale è questa Coppa Davis, che almeno le potevano cambiare il nome, ‘sti pezzenti.

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Il concorso di bruttezza

Nel suo dir poco o nulla, la partita di ieri sera di cose ce ne ha dette. Prendiamo i due gol – le cose più belle della partita: quello della Juve descrive perfettamente i gobbi, che nel pullman messo di traverso sul campo hanno una specie di sportello tipo quello dei siluri dei sommergibili, pum!, tu ti lasci distrarre dallo loro bruttezza e loro ti puniscono (perché saranno brutti ma sono anche forti, cioè, gli uomini ce li hanno, non facciamo finta che non sia così, lasci un pallone promettente a Chiesa e Vlahovic e loro se vogliono te lo mettono). Quello dell’Inter descrive perfettamente l’Inter: cinque tocchi di prima, tre movimenti perfetti e non c’è nessuno che tenga al mondo, pim-pim-pam, la bellezza del calcio, la forza e la classe pura dei singoli elementi, insomma l’Inter attuale nelle sue migliori potenzialità.

I due gol sono le carte migliori giocate dalle due squadre. Entrambe hanno vinto quella mano lì, spettacolare. Il resto, una melina ad aspettare carte migliori, mani migliori. Non ce ne sono state. Tra la bruttezza e la bellezza alla fine ha prevalso la prima, noi non ci siamo sottratti a lasciare andare le cose verso una direzione che tutto sommato non poteva dispiacerci tanto. Una specie di concorso di bruttezza, cioè, nel senso di una bruttezza in concorso (è un reato ancora non punito). 1-1, arrivederci e grazie.

Ascolta “Storia di un grande amore, danze caraibiche e Swarovski” su Spreaker.

La Juve è questa: difesa super-munita (difendono in otto), gioco essenziale (elegante giro di parole, in realtà pensavo a un margheritone fumante nel cerchio di cetrocampo) (anzi, grosso come il cerchio di centrocampo, delimitato dalla riga bianca), qualità dei singoli messe al servizio di questo anti-progetto di anti-calcio che però in serie A funziona, altroché. Cioè, poche ciance: sono maledettamente pericolosi. Ti ammorbano, schierano il loro 5-5-0, sfruttano bene il poco che producono (in fondo gli è riuscito 9 volte su 13, ci piaccia o no), sono secondi in classifica, hanno meno partite da giocare, hanno risorse che non ti aspetti (tutta ‘sta gente con nomi strani o doppi cognomi che ogni tanto tirano fuori, boh), sono brutti e cattivi. Anzi, in questo sport in cui la bruttezza non viene adeguatamente punita (se prendessero un punto di penalizzazione per ogni partita brutta giocata, sarebbero a pari con la Salernitana) la loro atavica cattiveria diventa un valore assoluto (non è una novità).

L’Inter è questa: difesa che funziona benissimo (anche) perchè il cuore del progetto è altrove, più avanti, dove si cerca di costruire e non di aspettare, una macchina vicina al modello ideale (miglior attacco, miglior difesa) perchè non mettiamo pullman di traverso ma abbiamo una flotta aziendale fatta di macchine sportive che ogni tanto vedi lanciate verso la porta avversaria e bòn, fate vobis, regalateci velocità, gol, bellezza, amore, verità, calcio, ecco sì, calcio. Bisogna essere orgogliosi di questa squadra che si esprime creando e non distruggendo. Certo, giochiamo a carte scoperte. Noi siamo questi, giochiamo così, i cambi li facciamo così, eccetera eccetera. Non abbiamo armi segrete e nemmeno nomi sorprendenti. Le altre si attrezzano, sanno cosa ci dà fastidio, provano a metterlo in pratica, se non hanno un pullman lo affittano. Qualche volta diventiamo bruttini anche noi, in questo abbruttimento.

Ieri queste due squadre hanno chiaramente tentato di vincere la partita, diciamo per 33 minuti, poi hanno chiaramente provato a non perderla dopo aver saggiato l’una la specialità dell’altra e avere pensato:

“Minchia”.

Sono nettamente le squadre migliori del campionato (al netto di quanto possano e vogliano ancora fare Napoli e Milan, che non possono che migliorare), una bella e l’altra brutta ma pesanti allo stesso modo – due punti di differenza contano quel che contano. La partita di ieri sera, nel mese di novembre, non era destinata a decidere nulla. Poteva dire delle cose e le ha dette. Magari non stravolgenti, ok, ma le ha dette. Forse potremmo consolarci con il fatto che in altri tempi partite così le avremmo sicuramente perse (l’anno scorso in campionato loro con noi hanno fatto 6 punti) e ieri no, non è successo nè poteva succedere. E non so nemmeno dire, a questo punto, se non aver perso la partita di ieri sia una mezza vittoria, o se non averla vinta – non averci provato seriamente – sia una mezza sconfitta. Per questa Inter, che per prima cosa pensa a darle, forse non è poi così male (in certe occasioni, e con certi avversari) pensare a non prenderle. Ci stiamo abituando allo champagne, ma sulla strada dello scudetto ogni tanto va bene anche un Crodino.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Cioè, c’è appena stata Juve-Inter: non avete argomenti? Beh, è un problema serio allora)

(il podcast, che ha ormai superato la soglia psicologica dei venti episodi, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venite a frignare come sciampiste a cui hanno soppresso Beautiful)

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