Fado, amore e joaomaria

La sera in cui un ex ti segna tre gol in mezz’ora, e quell’ex non è – chessò – Icardi o Lukaku (gente, per dire, da cui tecnicamente ti puoi aspettare tre gol in mezz’ora) ma Joao Mario (gente da cui in mezz’ora non hai mai visto fare non dico tre gol, ma tre cose passabili, ecco), rischia di essere una di quelle sere maledette che ti cambia il corso di una stagione fin qui quasi perfetta. Perchè le cose nello sport vanno così: viaggi col pilota automatico della fiducia e ti va tutto bene, poi una sera all’improvviso ti prendi cinque o sei pere a Lisbona in Eurovisione e il tuo castello di certezze si sgretola come una sbrisolona sotto le ruote di un suv in manovra.

(non so come mi sia uscita questa metafora, ma ho deciso che la tengo)

Perchè, ecco, io dopo il terzo gol di Joao Mario e dopo 35′ di Benfica-Inter in cui la mia squadra schierata con la formazione B sembrava piuttosto disinteressata alla partita mi sono visto apparire davanti agli occhi questa cosa: il tabellone del Da Luz con un risultato catastrofico (tipo Benfica-Inter 6-0) diventare un meme eterno, tipo quello di Milan-Cavese o di Rimini-Juve, you know, quelle robe che te le postano a tradimento per ricordarti momenti meno felici della tua lunga storia.

Ascolta “Ke Klassen, Dum Dum e danze tribali” su Spreaker.

E qui, proprio in questo momento, si verifica un clamoroso corto circuito tra blog e podcast, cioè tra me che guardo una cosa (una partita di calcio, 99 volte su 100) (sono un poveretto, lo so. Voi no?) e poi ne scrivo o ne parlo a seconda del device.

E’ andata così. Quando finisce quella pena del primo tempo, mando un vocale al mio socio Max così, giusto per inventarmi una gag in questa serata di pura merda distillata, e gli dico: “Vabbe’, basta così, io cambio canale, mi guardo Chi l’ha visto? e mi sento un po’ di fado, due cosette allegre, molto più di questa partita inutile e malsana”.

D’accordo, era una gag, ma l’ho fatto davvero. Nell’attesa di tornare sul divano per il secondo tempo ha preso il mio pc, mi sono isolato nello studio, ho avviato Raiplay e Youtube e mi sono messo a switchare tra le due pagine – Chi l’ha visto? e un pezzo di fado – senza rendermi conto che il tempo trascorreva veloce. Tanto che a un certo punto mi arriva un vocale di Max che dice: “Ha segnato Arnautovic, ti prego, continua col fado”.

Ascolta “Sostiene Settore, fado e fede” su Spreaker.

Ha segnato Arnautovic. Un miracolo, mi dico. Vabbe’, allora continuo col fado. Mentre zompetto su YouTube tra video di Amalia Rodrigues e video di Ana Moura, pur non riuscendo a distinguere un pezzo dall’altro, e guardando la Sciarelli senza audio, vengo a sapere via via che abbiamo segnato anche il 2-3 – e io continuo, mi costringo allo scranno del sacrificio – e poi a un certo punto che ci danno un rigore e lo tira Sanchez.

Gol. E’ il secondo miracolo – Sanchez che segna un rigore dopo averne sbagliati 15 degli ultimi 18, una roba così – e basta, non mi alzo più, il mio posto è qui, il divano è una stanza più in là, saranno dieci passi, ma io non ci vado. Sono sacrifici che un vero interista deve saper affrontare. Mentre cerco Dulce Pontes ma mi imbatto in Marta Pereira (però canta un uomo, ohibò) Max mi informa che abbiamo pure preso un palo, poi che hanno buttato fuori uno di loro. E infine il risultato finale, 3-3, che è meglio di un 3-0 per loro, molto meglio. Perchè tornare a casa con una brutta sconfitta avrebbe rotto un po’ questa positività che ci sostiene, mentre aver rimontato tre gol addirittura la amplifica un po’.

Per la cronaca, ho visto i tre gol dell’Inter solo 16 ore dopo, al tg di La7 delle 13.30. Forza Inter (al primo che mi fa sentire un pezzo di fado gli mando un raggio laser che gli fulmina la scheda audio in un nanosecondo)


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Però, per rimanere in tema, sarebbe carino parlare di Inter, di scaramanzie, cose così. O se volete mandarci un demo mentre cantate una canzone triste portoghese, va bene uguale)

(il podcast, che ha ormai ampiamente superato la soglia psicologica dei venti episodi, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Non dite cazzate, dai: scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. Ma se volete rimanere nell’ignoranza, chi sono io per impedirvelo?)

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Questa Coppa Davis

Il tennis è nella mia top 4 degli sport preferiti, forse top 3, forse top 2 se devo far pesare di più una presunta competenza tecnica (nel senso che ci ho giocato 30 anni e passa, pi-pim e pi-pam, per poi darmi 100% al podismo, pant-pant) rispetto alla semplice frazione emozionale. Il tennis mi piace, mi è sempre piaciuto, mi piacerà sempre. Riesco persino a infervorarmi un po’ a parlare di tennis (tipo di Inter o di calcio, solo una tacca sotto). Mi piace parlare di calcio e di sport – non appena capisco che ai miei occasionali interlocutori gliene frega almeno qualcosa, sennò mi spiace passare per il solito poveretto che si dà le arie da intellettualotto e poi pensa solo al pallone, quale che sia lo sport, mentre gli altri reprimono per gentilezza uno sbadiglio e la prossima volta cambieranno marciapiede – e mi piace parlare di tennis perché ne mastico, con idee mie magari, ma ne mastico. Almeno credo. E comunque: chi se ne frega se ne mastico o no. A me piace il tennis, è nella mia top 4 degli sport preferiti, forse top 3, forse top 2.

Per cui: sono molto contento che l’Italia abbia vinto la Coppa Davis. Ma non sono contento che abbia vinto questa Coppa Davis.

Ci sta, ci sta eccome, che l’Italia riesca a vincere la più importante competizione a squadre nel tennis. Attenzione: dopo più di quarant’anni di carestia, è addirittura una cosa enorme vedere – lo dicono le classifiche, mica il pur competentissimo Sector che ne mastica, fidatevi – che siamo tra le nazioni guida di questo sport per qualità a quantità di giocatori, come gli Usa, la Russia, la Spagna eccetera. Abbiamo vinto la Coppa Davis (questa Coppa Davis) schierando i nostri virtuali numeri 4 e 5, perchè il virtuale 2 (oggi 5) è fermo da non si sa nemmeno quanto e il nostro vero 2 (ma virtuale 3, anche se per bellezza di tennis 1) è in stato di forma tipo Lukaku quando torna dal mare. Cioè, siamo proprio forti come movimento (è incredibile). Poi vabbe’, il nostro numero 1 è il tennista oggi più in palla e più trendy di tutto l’universo e la Coppa Davis (questa Coppa Davis) l’avremmo vinta anche schierando ME come secondo doppista (col cavolo che stavo a rete con ‘sti missili che passano, me ne stavo a fondo e lasciavo fare all’altro) (poi servivo da sotto, per sfregio) (mi chiamano il Kyrgios delle nutrie).

“A Setto’, hai rotto er cazzo co’ tutti ‘sti numeri che nun se capisce ‘na sega”.

Ok, passiamo al secondo argomento. Questa Coppa Davis.

Amici dirigenti del tennis mondiale, voi potete fare il cazzo che vi pare, sia chiaro. Cambiate tutte le formule che vi pare. Però, allora, cambiate anche i nomi. Coppa delle Nazioni, Tennis League, Confederations Cup, Tennis World Champioship, Intercontinental Tennis Trophy, International Tennis Award, Pallina d’Oro, Racchetta Universale, TCFKAD (The Cup Formerly Known As Davis). Ecco, robe così. Non Coppa Davis. Questa non è la Coppa Davis.

Cioè, ma voi che adesso siete saliti sul carro dei vincitori, ecco, voi vi ricordate cos’era la Coppa Davis? Quella vera, non questa robaccia schifosa?

Vi propongo un ripassino. Ogni turno di Coppa Davis si giocava con cinque partite (4 singolari, 1 doppio) al meglio dei 5 set (che assoluta meraviglia) distribuite in tre giorni (2 singolari il venerdì, il doppio il sabato, 2 singolari la domenica). Si giocava sul campo di una delle due nazioni (secondo un criterio di turnazione: la prossima volta che ci sorteggiano insieme, giochiamo da te), che sceglieva luogo e superficie (che assoluta meraviglia).

Ma voi ve lo ricordate il parquet di Asuncion?

Allora, vi spiego. Anni Settanta-Ottanta. Il Paraguay aveva un signor giocatore, Victor Pecci, e poi nessuno. Ma quando c’era la Coppa Davis nessuno voleva andare a giocare in Paraguay. Perchè loro sceglievano come superficie il parquet del palasport di Asuncion, una roba così scivolosa che lo stadio successivo era il palaghiaccio di Bolzano. E una volta batterono gli Stati Uniti di McEnroe (ad Asuncion, ovvio, perchè l’avessero giocata a New York beccavano un 5-0 e a casa). Ma voi ve lo ricordate il Brasile che ci fece giocare in riva al mare a Macejo con tipo 40 gradi all’ombra e 55 al sole? O la Polonia che ci fece giocare in un campo in terra rossa con le righe in gesso che quell’infame di Fibak le cancellava col piede?

Ma ve le ricordate queste cose meravigliose?

E poi la Coppa Davis era anche una specie di zona franca per il tifo caloroso. Si vedevano scene, in Coppa Davis, che se fossero successe in uno Slam qualsiasi avrebbero sospeso la partita e arrestata mezza tribuna per interruzione di pubblico servizio. Questa era la Coppa Davis, una cosa romantica e sublime. Magari a volte un po’ estenuante (metti che si gioca sulla terra rossa, si affrontano due pallettari al meglio dei cinque set: non benissimo), ma terribilmente affascinante, epica, unica.

Ascolta “Storia di un grande amore, danze caraibiche e Swarovski” su Spreaker.

E questa Coppa Davis? Avendola chiamata in qualsiasi altro modo, non ci sarebbe stato nulla da eccepire. Ma non mi puoi chiamare Coppa Davis una competizione i cui incontri si risolvono in un pomeriggio (non in tre giorni), in tre partite (non in cinque) al meglio dei tre set (non dei cinque), in campo neutro (non in casa dell’una o dell’altra) e quindi sempre sulla stessa superficie (non su una a caso tra terra, veloce o erba a seconda della scelta dei padroni di casa) (o il parquet di Asuncion). Senza contare che il doppio pesa per il 33% e non per il 20% (che già contava parecchio), e anzi è spesso il punto decisivio. Il doppio. Una specialità semiclandestina (escluso la Coppa Davis, quanti doppi vedete in tv in un anno? Giusto le finali degli Slam, nei ritagli di palinsesto, forse). Il doppio composto 9 volte su 10 da giocatori che non giocano mai il doppio (uno spettacolo indegno).

Cioè, ma che merda è?

Facciamo un esempio. Facciamo che domani cambiano le regole dei Mondiali di calcio. Che anzichè in un mese si giocheranno in una settimana attraverso una serie di triangolari tipo Trofeo Birra Moretti, con tempi di 30 minuti anzichè 45, e se finisce pari si fanno gli shoot-out? Sareste contenti? Li chiamereste Mondiali?

Vabbe’, ci tenevo a dirlo perchè mi piace parlare di tennis, che è nella mia top 4 degli sport preferiti, forse top 3, forse top 2. Abbasso la Coppa Davis (questa Coppa Davis), viva il tennis, viva l’Italia, forza Inter.

P.S.: se siamo forti come movimento, adesso dobbiamo durare. La squadra di Panatta, Barazzutti ecc. fece 4 finali in 5 anni. Ragazzi, fate che non sia una roba occasionale così come occasionale è questa Coppa Davis, che almeno le potevano cambiare il nome, ‘sti pezzenti.

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Il concorso di bruttezza

Nel suo dir poco o nulla, la partita di ieri sera di cose ce ne ha dette. Prendiamo i due gol – le cose più belle della partita: quello della Juve descrive perfettamente i gobbi, che nel pullman messo di traverso sul campo hanno una specie di sportello tipo quello dei siluri dei sommergibili, pum!, tu ti lasci distrarre dallo loro bruttezza e loro ti puniscono (perché saranno brutti ma sono anche forti, cioè, gli uomini ce li hanno, non facciamo finta che non sia così, lasci un pallone promettente a Chiesa e Vlahovic e loro se vogliono te lo mettono). Quello dell’Inter descrive perfettamente l’Inter: cinque tocchi di prima, tre movimenti perfetti e non c’è nessuno che tenga al mondo, pim-pim-pam, la bellezza del calcio, la forza e la classe pura dei singoli elementi, insomma l’Inter attuale nelle sue migliori potenzialità.

I due gol sono le carte migliori giocate dalle due squadre. Entrambe hanno vinto quella mano lì, spettacolare. Il resto, una melina ad aspettare carte migliori, mani migliori. Non ce ne sono state. Tra la bruttezza e la bellezza alla fine ha prevalso la prima, noi non ci siamo sottratti a lasciare andare le cose verso una direzione che tutto sommato non poteva dispiacerci tanto. Una specie di concorso di bruttezza, cioè, nel senso di una bruttezza in concorso (è un reato ancora non punito). 1-1, arrivederci e grazie.

Ascolta “Storia di un grande amore, danze caraibiche e Swarovski” su Spreaker.

La Juve è questa: difesa super-munita (difendono in otto), gioco essenziale (elegante giro di parole, in realtà pensavo a un margheritone fumante nel cerchio di cetrocampo) (anzi, grosso come il cerchio di centrocampo, delimitato dalla riga bianca), qualità dei singoli messe al servizio di questo anti-progetto di anti-calcio che però in serie A funziona, altroché. Cioè, poche ciance: sono maledettamente pericolosi. Ti ammorbano, schierano il loro 5-5-0, sfruttano bene il poco che producono (in fondo gli è riuscito 9 volte su 13, ci piaccia o no), sono secondi in classifica, hanno meno partite da giocare, hanno risorse che non ti aspetti (tutta ‘sta gente con nomi strani o doppi cognomi che ogni tanto tirano fuori, boh), sono brutti e cattivi. Anzi, in questo sport in cui la bruttezza non viene adeguatamente punita (se prendessero un punto di penalizzazione per ogni partita brutta giocata, sarebbero a pari con la Salernitana) la loro atavica cattiveria diventa un valore assoluto (non è una novità).

L’Inter è questa: difesa che funziona benissimo (anche) perchè il cuore del progetto è altrove, più avanti, dove si cerca di costruire e non di aspettare, una macchina vicina al modello ideale (miglior attacco, miglior difesa) perchè non mettiamo pullman di traverso ma abbiamo una flotta aziendale fatta di macchine sportive che ogni tanto vedi lanciate verso la porta avversaria e bòn, fate vobis, regalateci velocità, gol, bellezza, amore, verità, calcio, ecco sì, calcio. Bisogna essere orgogliosi di questa squadra che si esprime creando e non distruggendo. Certo, giochiamo a carte scoperte. Noi siamo questi, giochiamo così, i cambi li facciamo così, eccetera eccetera. Non abbiamo armi segrete e nemmeno nomi sorprendenti. Le altre si attrezzano, sanno cosa ci dà fastidio, provano a metterlo in pratica, se non hanno un pullman lo affittano. Qualche volta diventiamo bruttini anche noi, in questo abbruttimento.

Ieri queste due squadre hanno chiaramente tentato di vincere la partita, diciamo per 33 minuti, poi hanno chiaramente provato a non perderla dopo aver saggiato l’una la specialità dell’altra e avere pensato:

“Minchia”.

Sono nettamente le squadre migliori del campionato (al netto di quanto possano e vogliano ancora fare Napoli e Milan, che non possono che migliorare), una bella e l’altra brutta ma pesanti allo stesso modo – due punti di differenza contano quel che contano. La partita di ieri sera, nel mese di novembre, non era destinata a decidere nulla. Poteva dire delle cose e le ha dette. Magari non stravolgenti, ok, ma le ha dette. Forse potremmo consolarci con il fatto che in altri tempi partite così le avremmo sicuramente perse (l’anno scorso in campionato loro con noi hanno fatto 6 punti) e ieri no, non è successo nè poteva succedere. E non so nemmeno dire, a questo punto, se non aver perso la partita di ieri sia una mezza vittoria, o se non averla vinta – non averci provato seriamente – sia una mezza sconfitta. Per questa Inter, che per prima cosa pensa a darle, forse non è poi così male (in certe occasioni, e con certi avversari) pensare a non prenderle. Ci stiamo abituando allo champagne, ma sulla strada dello scudetto ogni tanto va bene anche un Crodino.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Cioè, c’è appena stata Juve-Inter: non avete argomenti? Beh, è un problema serio allora)

(il podcast, che ha ormai superato la soglia psicologica dei venti episodi, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venite a frignare come sciampiste a cui hanno soppresso Beautiful)

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Eccetto Sassuolo

Storditi dalla sua bruttezza (nemmeno tra gli juventini, quelli con un minimo di senso critico diciamo, la Juve va per la maggiore in quanto a estetica), ci siamo davvero accorti di avere la Juve attaccata ai coglioni soltanto prima di Juve-Inter, dopo 12 giornate di campionato in cui il nostro primo pensiero è stato quasi sempre rivolto al Milan prima che, con due punti nelle ultime quattro partite, scomparisse dai radar.

Ascolta “Tante Juve-Inter, ex, panini e attese” su Spreaker.

La Juve, invece, ha vinto 6 delle ultime sette partite, subendo un solo gol, a risultato acquisito, dal Cagliari. Dei sette gol subiti in tutto il campionato, la Juve ne ha presi 4 nella stessa partita dal Sassuolo (che è anche l’unica volta in cui hanno subito gol in trasferta) e, quindi, solo 3 nelle restanti 11. Ci vantiamo giustamente della nostra difesa e dei clean sheet di Sommer, ma la Juve è uguale uguale: otto volte imbattuti – loro come noi – in 12 match. E’ quasi uguale anche il cammino in campionato: anche loro hanno pareggiato con il Bologna in casa e perso con il Sassuolo (però fuori) e l’unica differenza è nella partita di Bergamo: noi l’abbiamo vinta, loro hanno fatto 0-0 e sono questi i due punticini che ci dividono.

Cioè: escludendo Sassuolo, entrambe rasentano la perfezione. Due perfezioni molto diverse, però.

Ascolta “Gobbi, fair-play, ammore, maglie, mogli e mariti” su Spreaker.

Perché la casella dei gol fatti dice il resto: noi 29 e loro 19, praticamente segniamo un gol a partita in più. Noi divertiamo e ci divertiamo molto più di loro, delle nostre dieci vittorie solo tre sono state con un solo gol di scarto, la loro specialità, il loro corto muso: a loro è successo cinque volte su nove, quattro volte nelle ultime quattro. E non a caso con queste ultime hanno iniziato a costruire le loro certezze (bene o male – spesso male – le vincono tutte) e le nostre (non ce ne libereremo mai, porca miseriaccia schifosa). Noi andiamo a Torino avendo vinto 5 trasferte su 5, loro ci aspettano all’Alluminium Cessum dove hanno vinto le ultime 5. Molto bene.

Che poi, a pensarci bene, che razza di novità è? Quante centinaia di volte le sorti del campionato sono passate dalle paturnie di queste due squadre? Quante centinaia di volte ci siamo trovati a giocarsi un qualcosa (anche solo un momento particolare, uno snodo di stagione, una leadership morale) (o anche solo la reputazione) con la Juve?

Quella di domenica è l’ennesima sfida tra due società – tra due mondi, ecco – che si stanno potentemente sul cazzo. Se c’è una distanza, oggi, non è nei punti, nelle difese, negli attacchi, nella forza, nelle ambizioni. E’ nella bellezza. Purtroppo non conta nulla, a livello pratico. A livello morale invece sì, un casino. E sarebbe bello imporre la bellezza a casa loro, andare a Torino a giocare e non a parcheggiare pullman in area. E’ uno schema spaventosamente pericoloso, a livello pratico (la Bellezza non parte mai favorita). Rasenta quasi l’autolesionismo, nella tana dei cortomusisti. Ma sai che soddisfazione.

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Quasi Master

Avesse vinto le Atp Finals, certo, avrebbe incamerato l’ennesimo record, primo italiano bla bla bla, e avrebbero fatto programmi su di lui in tv fino a Natale, e forse anche oltre, e l’avrebbero inondato di retorica fino all’inverosimile, ma il fatto che le abbia perse (in finale con il numero 1 in edizione extralusso) non cambia il giudizio su di lui, sul suo valore e sulle sue prospettive. Le Atp Finals, che una volta si chiamavano Masters, sono un torneo di fine stagione tra tennisti parecchio appagati e piuttosto esausti, con una formula che non c’è in nessun altro torneo (il round robin nel tennis è un controsenso). E’ un torneo, per dire, che ha vinto due volte Zverev e che hanno vinto una volta Corretja, Davidenko, Nalbandian, Dimitrov, persino Tsitsipas. E’ un torneo che non ha mai vinto Nadal. Si passa alla storia anche senza vincerlo, ecco. E non passi necessariamente alla storia per averlo vinto.

Non è per essere andato in finale con Djokovic – la cui testa è ancora due gradini sopra gli altri, e il fisico uno – e avere perso nettamente che dobbiamo giudicare la stagione di Sinner, ma per i conti con se stesso (e noi tifosi) che ha sistemato negli ultimissimi mesi. E’ diventato un top vero, per essere riuscito a battere tutti gli altri Top 10 e in particolare tutti i Top 5, un muro su cui sbatteva regolarmente e che finalmente ha abbattuto. Nelle ultime settimane ha sconfitto Djokovic e (tre volte di fila) Medvedev: non gli era mai riuscito. E poi Tsitsipas, e Rune, e tutti gli altri. C’è una bella differenza tra essere nei Top 10 “solo” perchè hai fatto una marea di punti ed essere nei Top 10 perchè sei in grado di battere tutti.

Ascolta “#bonus – Techno macedone, Oasis e rigori” su Spreaker.

Il 2023 di Sinner rischiava, fino a due mesi fa, di essere una stagione incompiuta. Per essere un Top 10, gli Slam erano andati maluccio. Male l’Australia, male Parigi, male New York. Bene Wimbledon, ma le semifinali erano state frutto di un tabellone molto molto molto fortunato: poi trovi Djokovic e puff, fine. La sua classifica Jannik se l’è costruita altrove, su campi meno nobili ma con un rendimento sempre elevato. Fino a vincere un Master 1000 e a eguagliare Panatta a quasi 50 anni di distanza: quarto posto nel ranking Atp, numero di finale per stagione, numero di tornei vinti. E’ già nella Storia, quella italiana almeno.

A settembre riesce anche a rendersi antipatico (due mesi fa: sembra incredibile, adesso è l’eroe nazionale, hanno spostato la diretta su Rai1, roba da matti) dandosi malato alla convocazione in Coppa Davis (peraltro non lo biasimo: ha fatto bene, questa Coppa Davis è una barzelletta) e poi riguadagna la stima generale vincendo un sacco. Fino a fare le sontuose Atp Finals che tutti abbiamo visto, quattro grandi partite e una finale dignitosissima con un Djokovic ingiocabile – lo si era visto la sera prima con Alcaraz, triturato.

Questo autunno 2023 segna, comunque sia, il passaggio di grado di Jannik Sinner. Ha avuto pazienza, più di quanta ne abbiano avuto tutti gli addetti ai lavori e ai fini intenditori che lo considerano un predestinato da almeno cinque o sei anni e che pensavano di vederlo collezionare Slam giocando in surplace. Poteva cedere alla vanagloria e invece no, mai. Si è stabilizzato nelle zone alte del tennis, si è costruito una credibilità fisica (quella tecnica c’era), è un giocatore non solo apprezzato ma ora parecchio temuto. Non deve abbattersi per la finale di Torino: ha perso con Djokovic che è un mostro, uno che – se è anche solo al 70-80% dell’efficienza – non lo batte nessuno. Lo batterà solo il tempo e Sinner di questo si deve occupare: di essere lì nel gruppo degli eletti che ne prenderanno lo scettro.

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Il culo del campione (Dima Claus is comin’ to town)

Il gol di Dimarco è un po’ come Babbo Natale: è bello crederci. E’ bello credere che sia stato al 100 per cento frutto di genio, fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Che il nostro quinto di sinistra in un momento di trance agonistica abbia notato con la coda dell’occhio il portiere del Frosinone fuori dai pali (poco, tra l’altro) e abbia deciso in una frazione di secondo che quel pertugio tra la traversa e il braccio che si sarebbe proteso potesse essere centrato con esattezza con un tiro così, oooooop!, ed è gol!

E’ stata la stessa Inter, pubblicando l’ennesimo video del gol sui suoi social (quello con la ripresa dal basso), a smascherare in un certo senso Dimarco: quando alza la testa prima di tirare, Dima guarda chiaramente alla sua destra – gira il collo -, cioè ai due compagni che stanno scattando verso la porta, in particolare a Dumfries, più largo sulla destra e più libero di smarcarsi. Solo dopo aver tirato guarda verso la porta o verso il pallone, boh, perchè ormai sono un tutt’uno, il cross venuto male sta diventando un tiro venuto benissimo e bòn, ciao ciao Frosinone e viene giù San Siro, come giusto.

Qui il video con tutte le angolazioni possibili (quella che ci interessa è al 3′ 38″)

Perché il punto è proprio questo: volontario o meno è un gol fantastico, il prodotto del tiro di uno coi piedi buoni e col sinistro buonissimo, uno che con quella gamba fa cose non casuali – tutti gliele hanno viste fare – e quindi l’impresa resta, anche se con una percentuale di casualità che possiamo metterci qui a calcolare dopo estenuanti discussioni, sempre se a qualcuno interessi. Il gol da centrocampo è come il gol di tacco, il gol in rovesciata, il gol dopo avere fatto coast to coast, il gol dopo averne dribblati cinque o sei, cioè il gol che tutti sognano di fare una volta nella vita. E Dimarco adesso lo può spuntare nella sua lista.

Ascolta “#16 – Ciocie, ciociari, cross che non lo erano e ancora quiz” su Spreaker.

Mettiamola così. Non vinci la Maratona di New York se non hai sotto due polmoni e due palle così, ma se metti le scarpe al carbonio monouso da 500 euro un minutino lo rosicchi. E non segni il gol di Dimarco se non sei un giocatore così e hai un sinistro così, ma se hai anche un po’ di culo il tuo missile da 56 metri e rotti si infila sotto la traversa e vall’a piglià. E chi scriverà “Dimarco” nel campo di ricerca di YouTube lo vedrà per l’eternità. Non è semplice culo, insomma: è il culo del campione.

Perché se fossi io quello lanciato sulla fascia di un qualsiasi stadio, ecco, manco in mille tentativi faccio il gol di Dimarco, nemmeno con un 110% di culo del principiante. Me lo vedo già il mio pallone che si impenna, rimbalza al limite dell’area e dopo quattro rimbalzi esce in fallo laterale dalla parte opposta, forse. Oppure si ferma come impantanato in un campo pur asciuttissimo, o come sgonfio dopo qualche goffo ponf ponf ponf. E mi viene in mente la scena con me protagonista una ventina d’anni fa in un villaggio vacanze – devo averla già raccontata, ma si attaglia alla perfezione – quando vengo convinto da un animatore a provare il tiro con l’arco e mi presento alla piazzola tipo Fantozzi quando dice “sono stato azzurro di sci”, tzè, adesso faccio centro e li umilio tutti, tendo l’arco, scocco la freccia, la vedo partire e puff!, planare triste nell’erba cinque metri prima del bersaglio. Al che faccio all’animatore: “Ehm, mi sa che devo cambiare impugnatura”, e lui mi fa (con accento romanesco)

“No Robè, tu me sa che devi cambià la colazione”.

Quindi viva Dimarco e le sue doti balistiche che sono vere e non presunte. Diciamo allora – e qui chiudo – che altri tiri da centrocampo mi avevano dato un’impressione più netta di volontarietà, tipo quelli di Stankovic, questo ma soprattutto questo, leggendario, e quello di Recoba* (praticamente da fermo, per giunta, un capolavoro assoluto). Per dire, anche questo di Florenzi, molto simile, mi sembra più volontario (per quanto alla sperindio) perchè lui guarda la porta. E anche questo mi sembra più volontario (vabbe’ dai, era una battuta) (ma fino a un certo punto).

*) la cosa meravigliosa del video del gol di Recoba è che un attimo prima del tiro uno dell’Empoli interviene a corpo morto su uno dell’Inter che vola via come un fuscello. Un intervento che oggi sarebbe da rosso e forse anche da arresti domiciliari con obbligo di firma. L’arbitro lascia correre come un gesto per dire: tutto ok, dai dai, alzati. Era 25 anni fa.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Diciamo che l’argomento base sarebbe l’Inter, ecco)

(il podcast, giunto al sedicesimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venite a piangere)

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56 metri (di dimensione artistica)

Non trovate che la Nazionale giochi troppo spesso? Una pausa al mese è un po’ eccessiva, no? Che poi la pausa è per noi, non per loro, i giocatori. Soprattutto se una squadra – prendiamone una a caso: l’Inter – ha quei 2-300 nazionali in rosa ed è tutto un fiorire di passaporti e carte d’imbarco e tutto si risolve con un bel turno infrasettimanale fake (noi vorremmo l’Inter, non la Nazionale) eppure vero (loro vorrebbero riposare, invece giocano due partite). Io poi penso sempre a Lautaro, che magari vorrebbe andare alle terme a farsi una jacuzzi di tipo 3 ore per sciogliersi i muscoli dalla nuca in giù e invece prende l’avion, cambia emisfero, gioca con Uruguay e Brasile e poi riprende l’avion e qualcuno magari pensa che nella pausa si è rigenerato.

A parte tutto questo – che con i nostri 2-300 nazionali in rosa è un problema – c’è poi la questione dell’emozione che si interrompe. E qui, oggi, 13 novembre, non so che posizione prendere, più che altro per pudore. Nel senso che ieri sera c’era una forte emozione nell’aria, un gasamento potente, diffuso, che è sempre una bella cosa. Ecco, forse un tantinello esagerato se pensiamo che tutto questo si generava dopo un 2-0 in casa con il Frosinone alle 12esima di campionato, mica dopo un 7-0 al Real Madrid in una semifinale di ritorno di Champions. Certo, la vinci con un tiro da 56 metri che resterà negli annali e con un rigore procurato con uno slalom che Pierino Gros al confronto era un manichino dell’Oviesse. Ma è sano?

Ascolta “#16 – Ciocie, ciociari, cross che non lo erano e ancora quiz” su Spreaker.

Certo che è sano, vivaddio, è sanissimo. Ma se non ci fosse ‘sta cazzo di pausa delle nazionali, come saremmo andati alla sfida con la Juve? E come ci andremo tra due settimane, con la pausa in mezzo? Era meglio andarci gasati da un 2-0 al Frosinone? O sarà meglio andarci dopo aver metabolizzato la nostra esatta dimensione (e quella altrui) e la qualità degli impegni che ci attendono, a cominciare dalle tre trasferte in sette giorni – Juve, Benfica, Napoli (con allenatore nuovo) – che sarà il nostro vero esame di maturità?

Io Juve-Inter l’avrei giocata domani, accidenti, e invece è in programma domenica 26, cioè tra una vita. Ma questo riguarda solo la fanciullesca e bulimica voglia di Inter. Juve-Inter è invece diventata una cosa maledettamente seria. La Juve ha due punti in meno di noi, cioè nulla, una partita che noi abbiamo vinto e loro hanno pareggiato. Le partite della Juve sono di una bruttezza rara, ma ne vincono tre su quattro e questo è un fatto. Alla fine tutte inciampano o sprofondano (il Milan che era andato a +2 adesso è a -8, il Napoli è a -10) e a galla resta la Juve. Che novità, eh?

Sarebbe stata una figata giocarla subito, questa sfida. Invece dobbiamo gestire un’attesa lunga due settimane. A suo modo, una figata anche questa. C’è poi una terza figata: è l’Inter. Che ci prende ogni voglia di più, ci trascina a cantare e pogare anche con il Frosinone. Oh, mettiamola così: finchè dura, va tutto benissimo. E la missione è proprio questa: farla durare il più possibile (perché poi il resto vien da sè).

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Già fatto

A me il turnover piace. Praticamente funziona così: tieni fuori alcuni buoni, poi a un certo punto li rimetti dentro, vinci, ti qualifichi con due giornate di anticipo alla fase finale di Champions, ti qualifichi con due anni di anticipo al mondiale per club, cose così.

A Salisburgo Inzaghi ha preso qualche rischio, tenendo fuori contemporaneamente i detentori del 90% della garra dell’intera rosa (Lautaro, Barella, Dumfries) e schierando così una squadra ingentilita nei modi e praticamente priva di centrocampo (tutti largamente insufficienti). Eppure non ci è successo niente. Difesa molto sul pezzo (beh, abbiamo anche scoperto che Bisseck lo si può far giocare), attacco abbastanza brillante, abbiamo portato a casa il primo tempo e nel secondo ci siamo pure divertiti. Thuram ha fatto una partita alla Leao, però anche meglio – anche se non ne parlerà nessuno -, e Lautaro ha giocato una mezz’ora da sballo. Mettici anche che al posto di due centrocampisti smunti ne prendi due più in palla – Barella e Asslani – e la partita è vinta.

Ascolta “#15 – Salisburghy, Konaté e un quiz” su Spreaker.

Cioè, rendetevene conto: al 9 novembre siamo già qualificati in Champions. Dopo anni e anni di penultime e ultime partite col cuore in gola (e con qualche finale tragico) possiamo tirare un mezzo sospiro di sollievo, anche se sarebbe meglio arrivare primi che secondi e dunque non prendere sottogamba le prossime due partite.

Il ciclo delle cinque micidiali trasferte in sei partite è iniziato con due vittorie con modalità simile: quota fisiologica di futbol bailado, poi un po’ di attendismo, di ruvida concretezza e la carta del talento giocata al momento giusto. Stai a vedere che la partita più critica diventa quella col Frosinone, quella da rilassamento di default. Vietato distrarsi, neh?


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Diciamo che l’argomento base sarebbe l’Inter, ecco)

(il podcast, giunto al quindicesimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma sarebbe un peccato)

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Visitors

E se, con serenità, ci dicessimo che la partita di Bergamo era la più difficile delle undici giocate fin qui in campionato, e che l’abbiamo vinta, e che l’abbiamo vinta bene, cioè andandocela a prendere non solo sul campo dell’avversario, inteso come stadio, ma anche sul suo terreno, inteso come la comfort zone di un match ruvido, aspro, scivoloso (in tutto e per tutto), fisico?

E se, con serenità, ci dicessimo che la partita di Bergamo era il primo vero scontro diretto del campionato – Milan e Roma troppo brutte per essere vere – e che lo abbiamo vinto, e che l’abbiamo vinto bene, sul campo di una squadra che in casa non aveva ancora subito un gol? (anche noi non ne avevamo ancora subito uno in trasferta, Atalanta-Inter era interessante a prescindere)

Ascolta “#14 – L'Atalanta, i nostri Colleoni, AI e AHAHAHA” su Spreaker.

No, perché è proprio di serenità che ci dobbiamo armare adesso – l’Inter, dico, ma anche noi tifosotti per induzione – nel prenderci le giuste responsabilità. Siamo primi in campionato, primi in Champions, abbiamo iniziato bene il terribile mini-ciclo delle cinque trasferte (e che trasferte!) su sei partite, e serenamente dobbiamo prenderne atto e agire di conseguenza. Anzi, pensare di conseguenza. Prendere confidenza con questa nostra dimensione.

Il bilancio stagionale è oltre ogni previsione, 11 partite vinte su 14, tanti gol fatti, pochi gol subiti, quasi sempre belli o efficaci o entrambe le cose. Due delle tre partite che non abbiamo vinto sono state quelle due sciagurate esibizioni – in casa – con Sassuolo e Bologna, l’altra è stata una trasferta di Champions che abbiamo riacciuffato forse oltre ai nostri meriti, ma credendoci.

Ieri è accaduta una cosa che nel suo piccolo dice tanto, secondo me. Si è fatto male Pavard, si è fatto parecchio male, poteva essere una svolta negativa, un infortunio che colpiva un giocatore non-qualsiasi, uno dei nuovi capisaldi della squadra, un infortunio brutto, di quelli che fanno tremare le gambe anche a tutti gli altri. Niente, è entrato Darmian, ha fatto un partitone, si è procurato il rigore, non c’è stato nemmeno il tempo di preoccuparsi o di smadonnare che già eravamo proiettati a vincere la partita.

Un segnale di forza. Vorrei sempre vederli così, i ragazzi. Magari più sporchi e cattivi, se le circostanze lo richiedono. Magari meno belli, ma dritti al punto. Noi ci divertiamo lo stesso, no?

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A brand new friend

Del Lukaku 2, vabbe’, non parliamone nemmeno. Del Lukaku 1, invece, ci restano (restavano?) dei bei ricordi. L’impatto di Big Rom sull’Inter fu straordinario, non solo in campo ma anche fuori. Tanto che non ci si capacitava delle voci che arrivavano dall’Inghilterra su questo ragazzone, come dire, non affidabilissimo. Boh, da noi sembrava affidabile eccome. In campo e anche fuori. Un punto di riferimento, una nuova icona dell’interismo. E poi, la cosa più bella, la straordinaria intesa con Lautaro, il compagno di reparto, l’amicizia, la stima, il feeling che si traduceva in gol e assist. La sua firma sullo scudetto. Sembrava tutto così sincero, così destinato a durare. Non lo era.

Ascolta “#12 – Daje de tacco, daje de punta, 47' di puntata” su Spreaker.

La serata del ritorno di Lukaku a San Siro si è conclusa con l’immagine qui sopra, due ragazzi sorridenti sotto la curva, Lautaro con il suo nuovo amico Thuram, una coppia che funziona di brutto e che tutti noi speriamo che possa durare tanto, il più possibile. E’ il presente dell’Inter, forse il futuro. Di sicuro è un calcio al passato, cioè a Lukaku. E un invito a concentrarsi sull’Inter di adesso, più bella, divertente e interessante di una serata trascorsa a fischiare un fantasma.

Questa sera nè Lukaku (novanta minuti penosi, del resto la tendenza a sparire nelle partite più complicate l’ha sempre avuta) nè Mourinho (dichiarazioni post-partita tra il provocatorio e il piagnonismo, ok le assenze ma il resto è caciara) hanno dato il meglio di sè. Pazienza. Noi sì, siamo stati più forti, anche se tutt’altro che perfetti. 19 tiri per fare un gol, e farlo solo all’81’, significa trascorrere quelle belle serate di passione (nel senso di sofferenza) interista in bilico tra l’estasi e l’incubo di una beffa che può sempre arrivare, tipo uno 0-0 che sarebbe stato profondamente ingiusto o peggio ancora uno 0-1 (sull’unico tiro subito) che ci avrebbe fatti impazzire.

Adesso, finalmente, arriva il difficile. Finalmente perché dobbiamo uscire da tutti gli equivoci se vogliamo davvero spiccare il volo. Ci aspettano sei partite in un mese, una in casa (con il Frosinone) e cinque in trasferta (Atalanta, Salisburgo, Juventus, Benfica, Napoli), nelle quali ci giochiamo la leadership in campionato e la qualificazione in Champions. Questo mini-ciclo dirà tanto sull’Inter. Rimettiamo i fischietti nel cassetto, perchè ora servono concentrazione, garra e un pochino di cinismo in più. Con i sorrisi invece siamo a buon punto. E non è per niente secondario.

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